Nella nuova Guerra Fredda che si agita tra Russia e Nato, la caccia ai sottomarini rappresenta uno dei fattori più importanti. Nelle settimane precedenti alla guerra in Ucraina, quando ancora le forze di Mosca si ammassavano nelle regioni sud-occidentali russe e in Bielorussia, i movimenti della flotta avevano allarmato le Marine atlantiche nel Mediterraneo e nel Baltico. Ma mentre le unità di superficie rappresentano elementi visibili e, per quanto chiaramente letali, più facili da seguire e della mosse preventivabili, la componente sottomarina è ancora oggi la parte che attira di più le attenzioni atlantiche. Soprattutto perché l’unita subacquea, una volta “scomparsa dai radar”, può riaffiorare ovunque proiettando la potenza di fuoco – anche strategica – in qualsiasi angolo del globo. Un pericolo, quello della potenza di fuoco, cui si aggiunge anche l’utilizzo dei sommergibili per compiti diversi da quelli tradizionalmente assegnati nei decenni scorsi, e in cui la Russia è da sempre uno degli attori più importanti e all’avanguardia. In particolare, le forze euro-atlantiche hanno da tempo posto l’attenzione sull’utilizzo della flotta subacquea in tutto ciò che riguarda compiti di intelligence e di sabotaggio. Operazioni che nel mondo di oggi, in cui gasdotti, oleodotti e cavi sottomarini rappresentano le strutture fisiche da cui passano energia e comunicazioni, rappresentano azioni forse anche più incisive e pericolose per la stabilità di un Paese e del suo sistema.

Fatte queste premesse, si comprende perché da sempre, e ben prima dell’inizio del conflitto ucraino, le forze atlantiche abbiano iniziato a considerare i sottomarini russi dei sorvegliati speciali. Due in particolare i teatri di riferimenti: quello del Mediterraneo orientale, vicino al Mar Nero e Suez, e quello dei mari del nord, percorso di entrata e di uscita dalle basi settentrionali russe verso l’Atlantico, sia della Flotta del Nord che di quella del Baltico.

Questo secondo fronte di guerra è stato di recente oggetto di un forte aumento dell’attenzione da parte delle forze armate britanniche, che come principale potenza Nato in quel lato dell’Atlantico, ha da tempo intrapreso una vera e propria caccia a qualsiasi movimento delle unità russe. Tanto che nei giorni scorsi il ministero della Difesa ha lanciato il primo documento ufficiale per la strategia del Paese su quello che viene definito lo “High North”.

Le parole del ministro della Difesa Ben Wallace, presentando la nuova strategia britannica per l’Artico, sono molto chiare. Nel documento, il Segretario alla Difesa scrive che “lo scioglimento del ghiaccio marino nell’Artico porta minacce e opportunità: la Russia sta adottando un approccio sempre più militarizzato alla regione; e la Cina sta supportando la sua proposta Polar Silk Road  (la Via della Seta polare ndr) con una gamma di infrastrutture e capacità che hanno un potenziale di dual use. Man mano che la regione diventa sempre più accessibile, le minacce provenienti da altre parti del mondo potrebbero riversarsi nell’Artico“. Proprio per questo motivo, il documento di Londra afferma che il Regno Unito applicherà un approccio molto più attento a quest’area dell’estremo nord euro-atlantico. La Royal Navy, si legge, opererà periodicamente nell’Alto Nord, mentre la Royal Air Force schiererà gli aerei da pattugliamento marittimo P8-A nella regione. Tema, questo degli aerei per la “caccia” ai sottomarini, che viene ribadito nello stesso documento, in cui si legge che il Regno Unito dispone di nove nuovi velivoli di questo tipo per i quali cercherà “opportunità” di pattugliamento periodico insieme ai partner regionali.

In tempi di tensioni con la Russia, se non di una vera e propria conflittualità, è chiaro che l’Artico possa diventare a tutti gli effetti un futuro teatro di tensioni. Motivo per cu Londra, che da sempre rappresenta uno dei paladini dell’intransigenza verso Mosca, ha messo l’occhio sulla regione polare. Il controllo delle rotte settentrionali è una delle chiavi più importanti per il futuro non solo dell’Europa, ma anche della stessa stabilità dell’Alleanza Atlantica.

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