Durante la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno prodotto, nell’arco di quattro anni, circa 2270 navi Liberty, le unità da carico utilizzate dagli Alleati prodotte in modalità standardizzata per sveltirne la costruzione. Grazie ad un sistema di costruzione modulare, per concetto simile al “prefabbricato”, alla semplicità dei componenti, e a una organizzazione tipo catena di montaggio, dal 1941 al 1945 18 cantieri navali statunitensi hanno sfornato una nave Liberty alla settimana.

Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, nel Regno Unito, durante il conflitto, la costruzione di uno Spitfire, il famoso caccia che, insieme allo Hurricane, ha permesso di sconfiggere la Luftwaffe nei cieli durante la Battaglia d’Inghilterra, richiedeva mediamente sei giorni all’apice della sua produzione: ci voleva più tempo per addestrare i piloti, che infatti, al culmine della Battaglia, scarseggiavano. Alla fine della guerra, in tutto, erano stati prodotti 20351 Spitfire per la Royal Air Force (Raf), l’aeronautica militare inglese, e la Castle Bromwich Aircraft Factory aveva raggiunto il rateo massimo di produzione di 320 caccia al mese.

Questo enorme sforzo industriale, insieme alla relativa semplicità dei mezzi del tempo (bisogna comunque considerare che si parla armamenti che riflettevano la tecnologia dell’epoca), ha permesso agli Alleati di ribaltare le sorti del conflitto, soverchiando le forze dell’Asse e la loro capacità industriale, che, per quanto riguarda la Germania, è stata elevata anche durante le fasi finali della guerra: il culmine della produzione dei caccia, come di altri mezzi, si è avuto nel 1944 con 25285 velivoli prodotti, ma nello stesso anno i soli Stati Uniti ne hanno prodotti 38873 e il Regno Unito 10730.

Queste considerazioni storiche ci servono da presupposto per ragionare sulla capacità odierna dell’industria bellica di far fronte alle richieste di produzione in caso di un conflitto.

La guerra in Ucraina ha dimostrato che gli sforzi industriali sono ancora fondamentali: il consumo massiccio di attrezzature, veicoli e munizioni richiede una base industriale su larga scala per sopperire alle perdite e per garantire quella superiorità numerica necessaria per la vittoria.

Oggi, come ci ha ricordato recentemente anche il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Militare, generale di Squadra Aerea Luca Goretti, la quantità ha ancora un peso rilevante nonostante i progressi raggiunti dalla tecnologia. L’attuale conflitto diventa quindi una finestra importante per trarre valutazioni che non si fanno più da tempo: la guerra simmetrica (o per meglio dire semi-simmetrica) che si sta svolgendo in Ucraina ci sta mostrando le difficoltà nell’approvvigionamento di munizioni sia perché le fabbriche vengono colpite dall’azione avversaria (caso ucraino), sia perché, fondamentalmente, la produzione industriale non è passata a livelli “di guerra” (caso russo).

Non sono disponibili dati certi sul consumo di proiettili di artiglieria e razzi, ma dai rapporti quotidiani del ministero della Difesa russo, che riporta il conteggio giornaliero degli attacchi di artiglieria, possiamo stimare che vengano utilizzati circa 7mila proiettili al giorno, compresi quelli abbandonati, distrutti dalla reazione ucraina o sparati ma non segnalati ai comandi.

Sul fronte di Kiev già da tempo si lamenta la drammatica diminuzione delle scorte di proiettili di artiglieria per una serie di fattori: i depositi di munizioni vengono colpiti dagli attacchi russi; le artiglierie ucraine sono per la maggior parte basate su sistemi di fabbricazione russa, quindi è impossibile reperire nuove forniture di proiettili; gli aiuti occidentali arrivano col contagocce e soprattutto vengono utilizzati sistemi con un calibro diverso rispetto a quello russo/sovietico.

Un articolo del Royal United Services Institute (Rusi), uno dei maggiori istituti di ricerca nel campo della Difesa e della sicurezza del mondo, ci fornisce una panoramica sull’attuale capacità di produzione industriale statunitense, essendo Washington il più grande fornitore di armamenti per sostenere lo sforzo bellico di Kiev. Attualmente, ci spiega il think tank, gli Stati Uniti vedono la rapida diminuzione delle scorte di munizioni di artiglieria. Nel 2020, l’acquisto di questo particolare munizionamento è diminuito del 36% e nel 2022 il piano è di ridurre la spesa per i colpi di artiglieria da 155 millimetri passando da 425 a 174 milioni di dollari, equivalenti a 75357 colpi. A bilancio sono stati messi anche 75 milioni di dollari per le munizioni a guida di precisione Excalibur che costano 176mila dollari l’una, equivalenti a 426 colpi. In breve, la produzione annuale di munizionamento di artiglieria degli Stati Uniti assicurerebbe, nella migliore delle ipotesi, solo da 10 giorni a due settimane di autonomia di combattimento in Ucraina.

Anche gli Atgm (Anti Tank Ground Missile) tipo Javelin cominciano a scarseggiare, stante l’elevato numero che n’è stato consegnato all’Ucraina (circa 7mila). Le spedizioni a Kiev, attualmente, hanno consumato un terzo delle scorte statunitensi di questo missile anticarro e il rateo di produzione della Lockheed-Martin è di 2100 pezzi l’anno (ma sembra che si potrebbe arrivare a 4mila). L’Ucraina ha affermato di utilizzare 500 Javelin al giorno, e ancora una volta si fa in fretta a fare i conti: in 14 giorni di uso intensivo le scorte ucraine di missili finirebbero, e la produzione statunitense non basterebbe a rimpiazzarli.

Passando alle forze aeree, il cacciabombardiere di ultima generazione F-35 viene prodotto a un ritmo di 142 esemplari l’anno, e sempre Lockheed-Martin afferma che nel 2023 si raggiungeranno i 156 velivoli l’anno. Si tratta, ovviamente, di una produzione non “di guerra”, ma un caccia complesso come l’F-35 richiede comunque molto più tempo per essere costruito rispetto ai suoi predecessori, e in caso di conflitto simmetrico con una potenza di livello globale (come la Russia o la Cina) la sua presenza sul campo di battaglia sarebbe fortemente compromessa per via dell’usura stessa del velivolo e per quegli esemplari che, fatalmente, verrebbero abbattuti. È pur vero che il caccia è nato per eludere le difese aeree avversarie e per colpirle prima che possano reagire con sistemi stand off, ma bisogna mettere in conto che in un ambiente bellico altamente contestato, come quello rappresentato dal possibile fronte cinese o russo, si perderebbero esemplari che non possono essere rapidamente sostituiti stante l’attuale rateo di produzione.

Bisogna anche considerare che le linee produttive di caccia, carri armati o unità navali, vengono chiuse una volta che l’ordine – fatto da uno Stato, non da un privato – è stato evaso, quindi non si possono riaprire a piacimento: una discussione in tal senso è stata fatta recentemente negli Stati Uniti in merito alla possibilità di riaprire la linea produttiva del caccia F-22 “Raptor”, e si è valutato che sia sconveniente per quanto riguarda costi e tempistiche. Possiamo quindi immaginare che in caso di conflitto prolungato, le perdite di sistemi all’avanguardia siano molto difficilmente rimpiazzabili, e questo discorso è tanto più valido quanto più si considerano mezzi più “grandi” o “complicati” come le unità navali moderne: senza scomodare una portaerei, la cui perdita sarebbe insostituibile, le fregate o le corvette richiedono anni di cantiere prima di essere varate, e anche considerando l’attivazione di un’economia di guerra le tempistiche sarebbero comunque troppo lunghe per le esigenze del fronte. L’esempio dell’incrociatore Moskva, pur con tutti i limiti del caso dati dalle contingenze in cui si trova la Flotta del Mar Nero, rinchiusa in quello specchio d’acqua per via dell’attivazione delle clausole del Trattato di Montreux da parte della Turchia, e per la scelta di Mosca di non dichiarare la mobilitazione generale (che implicherebbe anche il passaggio a una produzione industriale di tipo bellico), lo dimostra.

Avere armi tecnologicamente avanzate è sicuramente un vantaggio per combattere un nemico dotato di armamento moderno, ma questo vantaggio si esaurisce rapidamente durante un conflitto, che se diventa prolungato espone tutta la fragilità della filiera produttiva degli armamenti odierni, che dipendono da tecnologia non facilmente producibile e possibilmente a rischio per quanto riguarda la filiera produttiva: la questione delle Terre Rare è lì a dimostrarlo.

Il numero, come detto, fa ancora la differenza ed è la soluzione a questo problema: non solo bisogna produrre più armamenti moderni (distribuendo know how e capacità su tutta la base industriale), ma pensare anche di avere un approccio “sovietico”, ovvero di mantenere i mezzi legacy (ereditati, cioè quelli delle generazioni precedenti), in riserva e in grado di essere riattivati in breve tempo, per poter essere gettati nel combattimento una volta che quelli di prima linea avranno esaurito le loro possibilità.





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