Le munizioni europee all’Ucraina non sono solo una scelta di tipo militare, ma anche politica. Il motivo, come avevamo scritto su questa testata, è legato all’investimento in termini economici di questi aiuti militari. Perché se è vero che l’Unione europea propone un piano per armare Kiev, dall’altro lato uno dei “pilastri” di questo programma di Bruxelles è anche la possibilità di rendere l’industria delle armi europea sempre più efficiente e in grado di rispondere alle nuove esigenze manifestate con lo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina. Ed è su questo tema che si aperto il dibattito non solo in seno al Vecchio Continente, ma anche in ambito Nato.
Per comprendere il motivo dello scontro, bisogna tornare alle parole dell’Alto Rappresentante dell’Ue, Josep Borrell, il quale aveva definito questo piano per le munizioni a Kiev un meccanismo complesso composto di tre pilastri. Il primo era la risposta “alle esigenze immediate”. Dunque un miliardo di euro per fare arrivare subito le munizioni all’esercito ucraino. Il secondo pilastro, o meglio, la seconda fase del programma, riguardava invece la capacità di acquisti congiunti da parte di Bruxelles. Il terzo pilastro, infine, prevede invece il rafforzamento della capacità industriale europea nell’ambito della difesa. In sostanza, si tratta di una fase in cui l’Ue dovrà “aggiornare e aumentare le capacità di produzione della nostra industria della difesa”. Su questi punti il dibattito ha riguardato l’esclusione o il coinvolgimento nel piano di investimenti di industrie esterne all’Europa. Il duello ha visto protagonisti soprattutto Francia e Polonia – la prima a capeggiare il partito “europeista” la seconda quello dell’apertura ai partner atlantici – e sembrava essersi concluso con un’apertura quantomeno alle aziende basate in Ue e Norvegia. Ora però iniziano a notarsi in modo sempre più manifesto anche il pensiero e l’interesse degli Stati Uniti.
Una fonte dell’amministrazione statunitense ha riferito all’Ansa che “l’apertura del processo di approvvigionamento e di acquisto alle industrie esterne all’Unione Europea permetterebbe di consegnare più rapidamente le forniture tanto necessarie all’Ucraina”. Tradotto: Washington preferirebbe che l’investimento Ue da un lato si concentrasse su chi è in grado di rifornire subito e anche nel prossimo futuro l’esercito ucraino, dall’altro lato che non si trasformasse in un meccanismo che per gli Usa sarebbe considerato “protezionistico” e che andasse a finanziare esclusivamente le aziende del continente a scapito del coordinamento transatlantico.
La partita quindi, come detto, non è solo meramente quantitativa o qualitativa, ovvero su quante e quali munizioni inviare a Kiev, ma anche di matrice geopolitica. La Francia, attraverso il grande regista dell’accordo (il commissario Thierry Breton), sta cercando di fare approvare un piano che sostiene l’industria continentale ma che di fatto – e questa è l’accusa di alcuni governi e osservatori – si convertirebbe in un piano per finanziare le aziende transalpine. Da Oltreoceano, invece, guardano con sospetto a un programma europeo che escluderebbe da un piatto di diversi miliardi di euro le aziende che rappresentano capisaldi della Difesa euro-atlantica, rappresentando in sostanza una frattura di tipi economico all’interno di uno schieramento che invece vuole essere sempre più integrato su più livelli, da quello militare a quello industriale. Proprio per questo motivo, un portavoce del Servizio di Azione esterna della Commissione Ue ha dichiarato che “l’Ue e la Nato stanno coordinando strettamente il sostegno all’Ucraina. Sono in corso discussioni tecniche. Queste discussioni a livello di esperti contribuiranno allo scambio d’informazioni per garantire la massima efficacia e complementarietà delle nostre rispettive azioni”. Parole che indicano che la partita tra le due sponde dell’Atlantico è tutt’altro che chiusa.