In un mondo che sembra non avere più segreti per l’essere umano, l’Artico rappresenta per molti una sorta di prossimo (e forse ultimo) Eldorado che unisce l’interesse scientifico a quello più meramente economico, e dunque strategico. La regione più a nord della Terra, così remota e impossibile per larghi tratti della Storia umana, oggi non appare più un luogo misterioso né impraticabile, ma una regione che racchiude, come un enorme scrigno di terra e ghiaccio, quello che per le potenze mondiali è ancora qualcosa di fondamentale: materie prime e rotte che possono unire punti fino a oggi considerati impossibili da collegare.
Non deve sorprendere, dunque, che l’Artico, in questa spasmodica ricerca dell’essere umano verso nuove scoperte e risorse ,ma anche nella più materiale volontà di avere un vantaggio sui rivali, venga considerato uno scenario potenzialmente rivoluzionario, palcoscenico selvaggio dove declinare la propria lotta. Le condizioni che si stanno creando sotto il piano ambientale e quello scientifico rendono più semplici l’esplorazione e lo sfruttamento sia sotto il profilo delle risorse che di quelle rotte. Mentre la rinnovata contesa internazionale tra Stati vede nell’Artico convivere e confliggere gli interessi delle tre maggiori potenze mondiali: Cina, Russia e Stati Uniti.
Le mire della Cina
Pechino cerca nel Polo Nord non soltanto la possibilità di sfruttare risorse inesplorate ma anche possibili nuove rotte che rappresentino una via d’uscita dall’utilizzo dalla “prigione” della via della seta: unico percorso attualmente disponibile via mare per raggiungere i ricchi mercati dell’Europa. Su questo tema, alcuni analisti storcono il naso: le rotte polari appaiono ancora come qualcosa di difficile concretizzazione e probabilmente anche troppo dispendiose, per tecnologie e spostamenti, rispetto a quelle più note che solcano Suez o circumnavigano l’Africa.
Ma sappiamo che la Cina, con le sue supercontainer e le sue indubbie capacità tecnologiche, non è una potenza che si ferma davanti a certi ostacoli. Il riscaldamento climatico, se continua con gli attuali ritmi, potrebbe in effetti sostenere questo sviluppo delle nuove rotte – oggi disponibili in pochissimi periodi dell’anno. E di certo il passaggio a nord-est, con la sua attuale “quiete” geopolitica e con la Russia a garantirne il tratto asiatico, può essere una rotta molto meno complicata di quella che passa per Malacca, Aden, Bab el Mandeb e Suez.
Le risorse in mano alla Russia
Se per Pechino l’Artico è una via, per la Russia esso rappresenta quel vasto mondo ghiacciato che per secoli è stato uno dei grandi ostacoli strategici allo sviluppo del Paese. Una massa d’acqua immensa, completamente sotto il controllo dei russi, ricca, ma inadatta alla vita e allo sfruttamento. Un tesoro sommerso dal ghiaccio che ha costretto zar, capi di partito e lo stesso Vladimir Putin, a “dimenticare” quel mare ma soprattutto a cercare lo sbocco altrove. Un incubo che ha sostanzialmente creato la dottrina russa e che ha incardinato le scelte della Terza Roma per secoli, fino ai giorni nostri.
E che se l’Artico fosse stato navigabile probabilmente sarebbe stato visto con minore interesse. Oggi, con le condizioni viste in precedenza, il grande nord rischia di non essere più quel muro di ghiaccio, gelo e acqua che ha chiuso la Russia. Ma la Federazione, costituendo il Paese che per migliaia di chilometri “possiede” quella regione, sa anche che deve proteggerlo da potenziali nemici. E lo fa partendo dall’idea che in larga parte risorse e rotte siano “sue”.
Il ruolo strategico per gli Usa
Dall’altro del mondo, il blocco occidentale, ha da tempo l’Artico sotto osservazione. Washington esplora da sempre le rotte del nord, con sottomarini e navi da ricerca che hanno spesso scandagliato e navigato quelle acque e egli abissi fino a raggiungere il Polo. Dai tempi della Guerra Fredda, l’Alto Nord è stato considerato un confine tra il blocco occidentale e quello sovietico, e può esserlo ancora oggi, specialmente con la rinascita militare della Russia e le mire polari della Cina. Gli Stati Uniti, sia attraverso gli alleati della Nato, sia attraverso una propria e autonoma strategia, vedono nell’Artico lo scenario di una nuova competizione globale per risorse e rotte.
E non è un caso che gli ultimi documenti strategici atlantici considerino quella regione un elemento sempre più importante, non solo da mantenere libero per la navigazione ma anche intatto sotto il profilo militare e politico nella sua parte terrestre, escludendolo dall’interesse russo e in parte asiatico. L’allargamento della Nato a Finlandia e Svezia rientra in parte anche in questo scopo: avere sotto la propria influenza e sotto l’ombrello militare e politico l’intera Scandinavia rafforza la posizione dell’Occidente in quella vasta regione settentrionale del mondo.

Per gli equilibri ambientali, climatici e quindi non solo della regione ma dell’intero ecosistema mondiale, questa corsa all’Artico racchiude inevitabilmente sfide complesse e non prive di enormi pericoli. Organizzazioni internazionali, grandi istituti di ricerca, governi coinvolti nell’area, il Consiglio Artico (unico organismo internazionale a riunire Paesi occidentali e Russia per la salvaguardia del grande Nord) continuano a lanciare allarmi: ogni sfruttamento rischia di generare un cambiamento radicale, immutabile e dannoso per l’intero pianeta. Ma la competizione strategica rischia di coprire il tutto con interessi che molto poco hanno a che vedere con la tutela di un ambiente fragile e fondamentale per l’uomo, e che spesso racchiudono l’obiettivo di evitare che una potenza prevalga sull’altra in una regione che può davvero cambiare, in un futuro non così lontano, gli equilibri geopolitici. Ma anche quelli della stessa vita sulla Terra.