La conclusione del summit Nato di Vilnius è certificata dal lungo documento in novanta punti con cui l’Alleanza Atlantica ha concluso il vertice lituano. Un documento che tocca diversi punti, dal richiamo alla guerra in Ucraina alla sfida cinese, e da cui si può cogliere la complessità di un contesto che vede la Nato impegnata tra sfide, stimoli e dinamiche di varia provenienza.
InsideOver discute del futuro della Nato dopo il summit di Vilnius con Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation a Roma, l’unico centro di ricerca non governativo riconosciuto dall’Alleanza Atlantica. Per Politi capire il futuro della Nato significa affrontare diverse questioni. È una questione “di risorse, di misurare quanto per ogni obiettivo si possa mediare il desiderio politico con quanto pragmaticamente realizzabile, di consenso interno all’Alleanza”.
Tali dinamiche “si riflettono in un comunicato lungo, omnibus, che forse avrebbe avuto bisogno di più tempo per essere redatto al meglio da parte di redattori già oberati” e che riflette la necessità di armonizzare le strategie. “Non manca certamente un serio impegno comune su temi di sostanza come la continuità del sostegno all’Ucraina”, piuttosto “serve capire quali siano le priorità degli alleati e le sfide future”.
Direttore, il fronte Sud appare menzionato per la prima volta al punto 22 del comunicato. Come giudica la sfida del fianco meridionale della Nato?
“Parliamo di un tema delicato ma importante: premetto che ritengo utile il fatto che la regione Sud sia stata citata come un ambito di interesse strategico della Nato. Quel che si propone sono poi di fatto attività che si concentrano su alcuni Paesi e regioni senza specificare che servono approcci omnicomprensivi. Serve promuovere un dialogo omnicomprensivo su temi strategici con Paesi e organizzazioni come il Gulf Cooperation Council. Partendo dal tema fondamentale che si tratta di un settore scoperto in cui gli avversari dell’Alleanza sono presenti”.
Si riferisce alla presenza russa in aree come Libia e Siria?
“Sì. Nell’architettura Nato il Sud e l’area mediterranea non sono una “varie ed eventuali”, ma un posto dove i russi sono ben presenti, aggirando la Regione Nord-Est dell’Alleanza dal fronte meridionale. E proiettandosi fino all’Africa”.
Insomma, un fronte a dir poco caldo…
“E qui torniamo al tema delle risorse. Quando parliamo di obiettivi strategici della Nato dobbiamo sempre chiederci: con quali risorse? In parte, almeno in riferimento alle risorse materiali ed economiche, sono i Paesi che devono metterle in campo, ma bisogna capire dove possono andare gli sforzi comuni dell’Alleanza. Se la priorità ad esempio è contenere le spinte aggressive della Russia sul fronte ai confini della Nato, ci possono essere diverse possibili opzioni. Tutto questo viene sublimato, anche nell’atmosfera d’emergenza, da una comprensibile pressione verso il “tutto e subito” in Ucraina. È chiaro che ogni Paese fa il suo gioco, ci sono legittime aspirazioni di contenimento della Russia in Europa. Ma il tutto e subito spesso non è in relazione alle dinamiche che avvengono nel mondo reale. Non è particolarmente utile pensare che si possa fare tutto in una sola volta. Questo è un punto di realismo: ci vogliono tempo e risorse, anche umane”.

L’Ucraina, dunque, da vedere come una parte, sicuramente decisiva, di un “grande gioco” che vede la Nato impegnata in più fronti?
“Si. Perfino gli americani cominciano a essere a corto di risorse su altri fronti: sta emergendo sempre di più la prospettiva che in futuro la divisione dei compiti debba essere quella di una componente europea della Nato efficacemente armata per tenere alta la deterrenza, gli Usa con priorità sul teatro Pacifico e scenari come l’Ucraina inseriti in un contesto più ampio”.
In quest’ottica, sicuramente l’impegno di spesa militare è importante: 1.100 miliardi di dollari previsti, secondo la Nato, nei 31 membri nel 2023…
“Attenderei la fine dell’anno per sapere se la Nato ha davvero aumentato di oltre 8% la spesa militare come i dati rilasciati a inizio luglio lasciano pensare. Quel che occorre osservare sono le sfide che questo processo impone. Ad esempio oggi gli alleati europei stanno producendo sul piano civile e militare con costi energetici quintuplicati rispetto al pre-guerra in Ucraina. Si rischia di creare un dilemma in cui l’Europa dovrà scegliere se dar priorità al suo burro o ai suoi cannoni, in un contesto che la vede pure intenta a produrre armi per inviarle all’Ucraina, per non parlare della ricostruzione del Paese invaso dalla Russia, che sarà un altro impegno di spesa enorme. In questo contesto è bene invitare alla cautela, anche perché dare delle false speranze a Kiev rischia di essere molto controproducente per gli ucraini sul fronte politico”.
Un’Europa focalizzata sul suo teatro di riferimento come si può inquadrare nella nuova proiezione indo-pacifica di un’alleanza tradizionalmente compartimentata geograficamente?
“Su questa regione gli americani i conti in questione gli hanno già fatti dai tempi della Corea, quando il contributo non statunitense al sostegno a Seul fu limitato, anche per ovvie ragioni geografiche. Parlando del presente, un interessante rapporto del Center for Strategic and International Studies ha analizzato le capacità logistiche degli alleati europei nel teatro indo-pacifico, che secondo gli studiosi del Csis arrivano fino a una parte dell’Oceano Indiano. Con buona pace di strategie come la Global Britain: del resto, appare evidente che anche attori europei come gli inglesi non hanno più una posizione effettiva nel Pacifico dal 1941. E già allora si accorsero di essere minoritari rispetto agli Stati Uniti. Allora per combattere la guerra col Giappone mandarono quattro portaerei contro le quaranta americane. Oggi non sarà una sola portaerei a cambiare un dato di fatto che vede l’Indo-Pacifico di primaria pertinenza americana. Questo nonostante le buone intenzioni di alcuni attori, soprattutto i francesi che non mancano di basi e infrastrutture nei due oceani. E già da tempo per adeguarsi al mutato clima geopolitico, gli americani facendo scelte difficili e dolorose hanno concentrato risorse importanti nella regione”.
Anche sulla Cina, del resto, la posizione del summit di Vilnius riflette timori e diversità di vedute…
“Il comunicato della Nato di Vilnius sulla Cina mostra al tempo stesso accelerazioni nella percezione della rivalità con la Cina e frenate sulle mosse concrete di contrasto. Ad esempio, non si parla dell’ufficio a Tokyo che si prevede di aprire ma si parla della Cina in modo ben più diffuso rispetto al passato. Pechino è definita esplicitamente una “minaccia per i valori e gli interessi alla sicurezza”. Prima si parlava di “sfide e di opportunità”. Ma del resto si parla anche della necessità di una convivenza con l’avversario, riscoprendo alcune sagge categorie dell’epoca della Guerra fredda”.
Quindi si va verso una divisione del lavoro per ottimizzare risorse e spazi politici?
“La divisione del lavoro che ancora non è stata sancita politicamente, accompagnata con delicatezza da molti presidenti Usa, è chiara: l’obiettivo strategico della Nato è potenziare la deterrenza convenzionale europea nei confronti della Russia, per la cui concretizzazione il Vecchio Continente dovrebbe fare scelte di rottura come quella di standardizzare gli armamenti, non ben vista da molte industrie che temono di perdere profitti. C’è la necessità di trovare un punto d’equilibrio tra una serie di mercati nazionali degli armamenti aventi difficoltà a sostenersi e mercato europeo capace di creare valore e economie di scala. Lo si è già fatto con risorse come l’acciaio in passato, è possibile farlo oggi su settori strategici”.
Un’eccessiva divisione di armamenti e mezzi può depotenziare le capacità di deterrenza?
“L’esercito ucraino fa vedere oggi sul campo, dopo essere stato armato da più Paesi con più dispositivi diversi, come nelle migliori condizioni sarà un esercito europeo domani: riassumendo in un concetto, un rompicapo logistico. Ottimizzare le risorse è fondamentale. Stiamo ad esempio in Europa sviluppando due caccia di nuova generazione: una cosa che non sta né in cielo né in terra. Infatti, saggiamente, gli svedesi hanno smesso di pensare a un post-Gripen autonomo”.
Esistono strutture come l’European Defence Agency e la Direzione generale per l’industria della difesa e dello spazio (Defis) in seno all’Unione europea. Possono migliorare le capacità dei partner europei?
“Conosco molto da vicino il dossier dell’Eda, dato che ero parto del team negoziale: l’Italia voleva un’Eda forte e ambiziosa. Di converso, al suo interno francesi, tedeschi e, ai tempi, britannici hanno giocato di melina, Defis invece di recente è sceso in campo con 800 milioni di finanziamenti, che sono però divisi e parcellizzati. La difesa europea se vuole essere credibile deve usare la Nato come incubatore di capacità, come fatto con progetti del calibro di Tornado e Typhoon in passato”.
Insomma, è ora per l’Europa atlantica di prendersi le sue responsabilità?
“Bisogna venire a patti con la realtà. Più gli europei metteranno a fattor comune le loro capacità, più saranno credibili dentro e fuori l’alleanza, come del resto anche Obama diceva implicitamente con fare democristiano: fate qualcosa di europeo, purché funzioni. E, aggiungiamo, sia all’altezza delle sfide del presente. Guai a continuare a spendere come se nulla fosse successo, come si vede analizzando le spese militari tedesche: servono capacità utili per creare una deterrenza credibile contro i russi. I francesi hanno spinto sulla produzione di munizioni, promuovendo una risposta concreta a un problema prioritario e importante. E anche sul fronte del sostegno all’Ucraina, dare carri serve a poco se poi non si non si ha il tempo d’insegnare ai soldati ucraini come manovrare sul terreno una compagnia carri”.
Sul fronte dell’impegno italiano, come giudica il passaggio dal governo di Mario Draghi a quello di Giorgia Meloni?
“L’onorevole presidentessa Meloni ha buonsenso e, grazie a Dio, comunica con parsimonia sulle grandi dinamiche internazionali. Questi sono elementi sicuramente positivi. Tra Draghi e lei c’è continuità nella concezione di analizzare la prospettiva di una durata più lunga dei processi geopolitici riguardanti la Nato. Un fatto che permette di impostare al meglio il futuro. Non sono ancora sicuro di quanto l’esecutivo possa prendere scelte nette su alcuni dossier chiave, ma questa è una scelta che semplicemente gli compete. Sicuramente c’è una continuità Draghi-Meloni dettata dalla geopolitica italiana, a cui dal suo insediamento la premier ha aggiunto una sollecitazione a guardare con più attenzione all’Africa e a ristabilire rispetto agli alleati l’importanza dei Balcani. Questo nelle intenzioni: è ancora presto, dopo pochi mesi di governo, capire se ad esse seguiranno fatti concreti sul piano operativo per l’Italia e la Nato. Ma si tratta sicuramente di sviluppi da seguire con attenzione”.