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Recentemente abbiamo avuto modo di parlare di Estremo Oriente analizzando la strategia dell’Occidente per riguadagnare terreno in un fronte diventato il fulcro dell’economia mondiale grazie a volumi di traffico commerciale passante per quei mari in costante crescita. L’Estremo Oriente, avevamo scritto da queste colonne, non è più “estremo” se non geograficamente. L’Oriente è vicino, e con esso è la Cina ad essere vicina, e lo è non solo grazie a quel sistema di interscambi globale che ha messo a punto chiamato One Belt One Road, o Nuova Via della Seta.

Avevamo più volte detto – ma sarebbe meglio dire avvisato – che la strategia commerciale di Pechino sarebbe stata accompagnata da una di tipo prettamente militare, in quanto la sicurezza delle vitali rotte di approvvigionamento del mercato interno (funzionale al programma di lungo termine di Xi Jinping di “benessere diffuso”) passa per il controllo e la sorveglianza dei mari. Un controllo che si contrappone a quello statunitense, animato da una visione strategica fondamentalmente opposta: da un lato, quello del Dragone, si propugna la nazionalizzazione degli spazi (marittimi o aerei), dall’altro, quello americano, ci si batte per il rispetto della libertà di navigazione.

Uno scontro di weltanschauung, come vi avevamo già detto. Il Politburo ha stabilito una tabella di marcia non ufficiale ma facilmente intuibile per poter ottenere quel controllo: dapprima ha dato forte impulso alla cantieristica navale, con un processo di trasformazione della flotta cinese in una blue water navy (o flotta d’altura) caratterizzata da sempre maggiori capacità di proiezione di forza. Una trasformazione epocale che è ancora in corso, ma i cui effetti si possono già vedere in piccoli segnali come il potenziamento infrastrutturale e l’ingrandimento di basi navali e l’impostazione di grandi unità di superficie come le portaerei.

La zampa del Dragone nel Mar Rosso

Ora Pechino sta facendo in modo di poter usare in modo efficace quello che sarà il suo strumento navale moderno. Recentemente abbiamo rilevato, infatti, alcuni segnali che ci fanno capire come la Cina stia passando dalla mera teorizzazione del controllo dei mari alla sua messa in pratica.

Il primo ci giunge da quello che è già un presidio cinese d’oltremare: Gibuti. Sino a oggi l’unica base navale al di fuori del territorio continentale o insulare cinese, Gibuti è posizionata a ridosso dello stretto di Bab el-Mandeb, che mette in comunicazione l’Oceano Indiano al Mar Mediterraneo passando per il Canale di Suez.

In quel punto strategico, Pechino ha infatti completato un molo abbastanza grande da ospitare una portaerei, che potrebbe potenzialmente consentire alla Marina Cinese di proiettare la sua potenza al di fuori delle tradizionali aree operative dei mari della Cina orientale e meridionale, con una direttrice privilegiata verso il Mare Nostrum, dove ha dimostrato di voler essere sempre più attivamente presente tramite esercitazioni navali congiunte effettuate con l’Egitto.

La base è stata costruita tra il 2016 e il 2017 come “struttura di supporto” navale in funzione, secondo Pechino, delle operazioni antipirateria al largo delle coste della Somalia. Il generale Stephen Townsend, comandante del Comando per l’Africa degli Stati Uniti, è stato il primo a riferire dei lavori di ingrandimento, quando ha detto che “l’hanno appena ampliata aggiungendo un molo significativo in grado di supportare anche le loro portaerei in futuro”, aggiungendo anche che “in tutto il continente (africano n.d.r.), stanno cercando altre opportunità per avere basi”.

Poter utilizzare una portaerei, e quindi anche le nuove unità da assalto anfibio Type 075, significa estendere il proprio braccio armato, anche se, lo ripetiamo una volta di più, per effettuare operazioni sostenute molto distanti dalla madrepatria, è necessario avere arsenali (e maestranze) in grado di effettuare lunghi lavori di riparazione.

Gibuti fa parte di quel “filo di perle” formato da altre strutture portuali in costruzione – o già costruite – con il supporto cinese vicino alle principali rotte marittime, in paesi come lo Sri Lanka, il Pakistan e il Myanmar. Strutture civili, ma che potenzialmente potrebbe avere un uso duale, quindi anche militare.

“Perle” africane

Restando in Africa la Cina ha in essere diversi investimenti in strutture portuali, dal Kenya sino alla Mauritania passando per la Namibia, l’Angola, la Nigeria e il Senegal: potenzialmente anche questi investimenti infrastrutturali potrebbero essere sfruttati nello stesso uso duale. In Particolare Angola Kenya, Tanzania e le Seychelles potrebbero vedere l’apertura di strutture militari come quella di Gibuti.

È sempre il generale Townsend a lanciare l’avviso delle attività cinesi nell’Africa Occidentale. In un’intervista con l’Associated Press il generale ha affermato che la Cina è in contatto con Paesi come la Mauritania e la Namibia per la creazione di una struttura navale con la capacità di ospitare sottomarini o portaerei. “Stanno cercando un posto dove poter riarmare e riparare le navi da guerra. Ciò diventa utile in caso di conflitto”, ha detto Townsend.

E “pacifiche”

Cambiando fronte assistiamo al tentativo cinese di espandere il suo raggio d’azione anche nel Pacifico. Pechino ha elaborato piani per rimodernare una pista di atterraggio e un porto su una delle remote isole di Kiribati, a circa 3400 chilometri a sud-ovest delle Hawaii, nel tentativo di far rinascere un sito che ospitava aerei militari durante la Seconda Guerra Mondiale.

I piani prevedono la costruzione di un insediamento militare sulla minuscola isola di Kanton, un atollo corallino strategicamente situato a metà strada tra l’Asia e le Americhe.

Qualsiasi infrastruttura significativa, come quelle viste nelle isole Spratly del Mar Cinese Meridionale, sull’isola, offrirebbe un punto d’appoggio in profondità nel territorio che era stato saldamente sotto controllo statunitense durante le ultime fasi del Secondo Conflitto Mondiale.

È possibile che l’aeroporto possa supportare il dispiegamento di caccia, se viene modernizzato a dovere oltre che aumentato nelle sue dimensioni, e l’isola potrebbe anche essere utilizzata per lanciare aerei di sorveglianza, poiché è strategicamente situata tra le Hawaii e la regione che comprende l’Australia e la Nuova Zelanda, avversari strategici della Cina.

In una dichiarazione fatta a Reuters, il ministero degli Esteri cinese ha affermato che Pechino sta esplorando piani per l’ammodernamento e il miglioramento della pista di atterraggio, su invito del governo di Kiribati, per facilitare il trasporto aereo all’interno del Paese.

La dichiarazione afferma che la cooperazione della Cina con Kiribati rispetta il concetto di “cooperazione reciprocamente vantaggiosa” (o win-win) ed è “entro i limiti della sua capacità di fornire aiuto senza condizioni politiche”. La parte più interessante, oltre al fatto che l’arcipelago di Kiribati rappresenta la più grande Zee (Zona di Esclusività Economica) del mondo coi suoi 3,5 milioni di chilometri quadrati, è che l’aeroporto è posizionato lungo le principali rotte marittime tra il Nord America, l’Australia e la Nuova Zelanda, facendone quindi uno snodo strategico per il controllo delle stesse.

Si stanno quindi posizionando le pedine cinesi sulla scacchiera globale, dal Mar Rosso (quindi Mediterraneo compreso) all’Oceano Pacifico più profondo passando per l’Atlantico, e occorre non sottovalutare la possibilità che in un futuro prossimo si possano vedere navi militari battenti bandiera rosso stellata molto vicine a noi, ricordando – come detto all’inizio di questa trattazione – che sono animate da una visione strategica ben lontana da quella occidentale. La Cina è vicina, e lo sarà sempre di più.

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