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Il prossimo mercoledì il presidente francese Emmanuel Macron annuncerà ufficialmente la fine dell’Operazione Barkhane in Sahel.

Macron, in visita a Tolone, pronuncerà un discorso che sarà in particolare “un’opportunità per segnare ufficialmente la fine dell’Operazione Barkhane e per annunciare un significativo adeguamento delle nostre basi in Africa”, ha affermato una fonte dell’Eliseo.

Il disimpegno francese dal Sahel è cominciato da tempo, ed è stato particolarmente evidente in Mali, da dove le forze francesi si sono ritirate completamente lo scorso agosto, ma Parigi continuerà a mantenere una presenza abbastanza consistente nella regione, con circa 3mila soldati schierati in Niger, Ciad e Burkina Faso.

A partire dal 2020, infatti, la giunta militare al potere in Mali ha fatto pressioni sulla Francia affinché ritirasse completamente le sue forze: un processo graduale che ha visto la consegna della base di Gossi, la più importante che ospitava 300 soldati francesi, ad aprile del 2022.

La crisi diplomatica tra Parigi e Bamako ha aperto le porte a Mosca, che ha inviato nel Paese le sue milizie paramilitari del Gruppo Wagner, che si ritiene siano subentrate ai soldati francesi nei compiti di contrasto all’attività jihadista e di addestramento delle forze locali. Il 15 agosto scorso, la ritirata finale, con le ultime truppe francesi che hanno attraversato il confine tra Mali e Niger.

Il ritiro, come detto, era previsto e non solo per gli ultimi sviluppi legati alla crisi tra i due Paesi che aveva costretto la Francia a riorganizzare il dispositivo dell’Operazione Barkhane al di fuori dal territorio maliano: Parigi cercava da tempo partner per condividere il peso di una missione anti-terrorismo in una vasta regione dell’Africa subsahariana che stava impegnando numerosi uomini e mezzi. Barkhane al suo culmine impegnava, infatti, circa 5500 soldati.

Condivisione degli oneri che è arrivata con la nascita di Task Force Takuba che si è andata ad aggiungere alle altre missioni internazionali (tra cui anche dell’Unione Europea e dell’Onu) se pur con compiti – e reparti – totalmente diversi. Takuba, che vede la partecipazione anche dell’Italia, non ha riscosso molto successo in seno agli alleati europei: la Norvegia ad inizio di quest’anno ha rinunciato alla sua partecipazione, e la Danimarca ha annunciato il ritiro del suo contingente dal Mali, come richiesto dalle autorità locali, aggiungendosi così agli svedesi, che hanno comunicato il loro disimpegno da Takuba rinunciando, contestualmente, al comando della missione.

Barkhane finisce, come da piani di Parigi, ma l’esercito francese resta nel Sahel, sebbene numericamente ridimensionato, e parimenti continua Takuba.

Secondo l’Eliseo, il principio guida ora è quello di “ridurre l’esposizione e la visibilità delle nostre forze militari in Africa, concentrarsi sulla cooperazione e sul supporto (…), principalmente in termini di equipaggiamento, addestramento, intelligence e partnership operativa quando i Paesi lo desiderano”. La Francia ha annunciato la volontà di avviare discussioni con gli Stati africani su questo tema e anche se non intende abbandonare la lotta anti-jihadista, deve fare i conti con un’opinione pubblica africana sempre più ostile e all’interno della quale cresce l’influenza delle potenze rivali, Mosca in testa, attraverso i social network e i media.

Una proliferazione della disinformazione online, volta principalmente a denigrare la presenza francese e giustificare quella russa, che si sta diffondendo anche al di fuori dei confini maliani, toccando, ad esempio, il vicino Burkina Faso. Un fenomeno che Parigi non è stata capace di arginare in Mali, e molto probabilmente non riuscirà ad arginare altrove, anche se le attuali contingenze strettamente legate al conflitto in Ucraina aprono uno spiraglio per il reinserimento francese e alleato: le Pmsc russe, Gruppo Wagner in testa, sono impegnate sul fronte ucraino e hanno dovuto ridimensionare la propria presenza nel continente africano.

L’idea francese, ora, è comunque di continuare ad agire, ma con discrezione. Secondo quanto riferito, non è stato ancora assegnato un nuovo nome al contingente francese rimasto nel Sahel, fattore che serve a mantenere un basso profilo: nel campo della comunicazione, Barkhane continua ad occupare una presenza molto importante sui social network, pertanto è interesse della Francia che si metta chiaramente fine a questa operazione per poter passare a un’altra effettuata con logiche diverse.

La fine di Barkhane porta con sé comunque il ridimensionamento della presenza francese nel Sahel, il che significa più oneri per gli alleati presenti nella regione facenti parte di Task Force Takuba che dovrà, per forza di cose, subire una rimodulazione.

Nonostante la Francia abbia una presenza diffusa in tutta l’Africa subsahariana (Ciad, Niger, Burkina Faso, Senegal e Costa d’Avorio) l’aumento dell’attività dei gruppi legati al terrorismo islamico in Sahel e la presenza russa imporrà un maggiore impegno agli alleati europei sia nell’ambito della counter-insurgency/counter-terrorism sia nel fondamentale addestramento/sostegno delle forze di sicurezza locali. Maggiore impegno si traduce solamente in più uomini e mezzi, ma il rischio di uno scenario afghano è sempre dietro l’angolo: se si deve stare in Sahel, occorre avere ben chiaro come ci si deve stare e il ruolo che si deve avere nel contesto generale di sicurezza di ciascun Paese coinvolto.

Il fallimento francese in Mali deve essere ben compreso per evitare gli stessi errori: la Francia ha fallito a causa di una combinazione di fattori, tra cui la non comprensione delle dinamiche del conflitto locale, errori di carattere politico ed operativi. Forse se l’approccio francese fosse stato molto meno “militare” sulla base dell’errato presupposto che solo l’attività dei gruppi terroristici avesse generato instabilità nel Sahel, non riuscendo così ad affrontare e capire la crisi del governo maliano, oggi in Mali non ci sarebbe la Russia e probabilmente ci sarebbero ancora i soldati francesi. Parigi non è stata in grado di impegnare i leader maliani nel ripristino e rispetto della legalità aiutandoli ad affrontare i fattori alla base del conflitto. Non essendo riuscita in questo intento, la violenza di stampo jihadista è esplosa espandendosi dal nord del Mali sino alla regione centrale, nonché al Niger, al Burkina Faso e ai confini settentrionali del Benin e della Costa d’Avorio.

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