L’Italia è in procinto di diventare la nazione con la più grande flotta di aerei spia del mondo. La notizia era uscita già alla fine dell’anno scorso, ma adesso è tornata di attualità con il cambio di governo, la conferma dell’accordo con Stati Uniti e Israele e con il retroscena di Luigi Bisignani per Il Tempo secondo il quale il dossier è particolarmente attenzionato dall’esecutivo a guida Draghi. Franco Gabrielli, l’uomo scelto dal premier come sottosegretario alla Sicurezza, starebbe infatti vagliando meticolosamente questo contratto per lo stormo di aerei-spia dal valore di diversi miliardi di euro. E, sempre secondo Bisignani, la stessa attenzione è attualmente rivolta da Giancarlo Giorgetti e Lorenzo Guerini, che stanno studiando l’accordo sugli aerei perché esisterebbe un problema che il precedente esecutivo di Giuseppe Conte aveva completamente bypassato: l’industria italiana, da questo accordo, appare completamente assente se non per un’antenna radar attiva (AESA) Osprey 50 sviluppata da Leonardo. Nessuna fase né dell’assemblaggio né della manutenzione vedrebbe attualmente coinvolti siti italiani o aziende che rappresentano eccellenze del Patrio Stivale nel campo della Difesa.

Ad oggi sembra che tutto sia “appaltato” alle aziende americane e israeliane, che saranno le uniche autorizzate a mettere mano sui Gulfstream G-550. Problema abbastanza importante cui se ne aggiunge un altro: l’attuale accordo, come spiegato a suo tempo da Repubblica, vede infatti l’acquisto di otto aerei pur non avendo i fondi per attrezzarli. In pratica due di esse avranno subito tutte le apparecchiature elettroniche per essere degli aerei spia perfettamente utilizzabili, mentre gli altri si comprano in attesa di un futuro equipaggiamento. Il tutto ovviamente con dei costi non solo istantanei ma anche per la manutenzione.

Una flotta davvero necessaria?

La scelta italiana ha diverse sfaccettature. La decisione di acquistare un numero così importante di Gulfstream G-550 – con un programma che supera anche il 2050 – fu dettata, secondo il governo, da diverse esigenze. Secondo quanto affermato dal precedente esecutivo alle Camere, si puntò sul mezzo americano e israeliano evidenziando “trasversalità e imprevedibilità delle future minacce, quella terroristica in primo luogo, ma anche l’utilizzo di armi di distruzione di massa e l’instabilità regionale”. Secondo l’allora governo giallorosso, “la risposta militare passa attraverso adeguate capacità di ricognizione e sorveglianza”. Motivi per cui si scelse appunto di virare massicciamente su questi mezzi, aerei che nascono come velivoli civili e che vengono poi modificati in base alle necessità dell’intelligence, trasformandoli, come spiegato da Paolo Mauri su InsideOver, in “un sistema multi-sensore con funzioni di sorveglianza aerea, comando, controllo e comunicazioni, per garantire la supremazia aerea e il supporto alle forze di terra”.

Se dal punto di vista tecnologico parliamo di aerei sicuramente in grado di rispondere alle esigenze per cui vengono acquistati, diversa è la valutazione sulla necessità di questo tipo di acquisto. Innanzitutto perché si tratta di aerei in uscita dalla produzione, quindi sono velivoli destinati a essere già vecchi. In più sono sicuramente tanti (secondo molti analisti fin troppi) rispetto alle esigenze strategiche italiane. Un esempio su tutti: il Regno Unito ha tre aerei di questo tipo. E di certo l’Italia non è impiegata negli stessi teatri operativi della Gran Bretagna né ha le stessa velleità di potenza globale.

Una sovrabbondanza che potrebbe anche essere valutata positivamente se proiettata con l’idea di “grandeur” italiana. Potrebbe essere, dicono i sostenitori del progetto, per una posizione di forza di Roma nei piani di intelligence della Nato nel Mediterraneo. Se non fosse che, come detto in precedenza, la maggior parte di questi aerei rischia di rimanere ferma per mancanza di fondi, mentre l’Italia può difficilmente avere necessità di questo tipo a fronte di una politica estera che già ha difficoltà a comprendere gli obiettivi strategici in Libia.

Nessuna difesa antisom

Una fonte a conoscenza del problema sentita da InsideOver pone l’accento su un altro punto: la scelta di puntare su una quantità così importante di aerei spia da parte della Difesa non considerando invece mezzi in grado di svolgere non solo l’attività di intelligence ma anche quella antisommergibile. “L’Italia ha preso aeri spia e pattugliatori marittimi, potevamo invece acquistare degli aerei in grado – con i dovuti accorgimenti tecnici – di fare tutto. Avremmo dovuto prendere mezzi dual use, per esempio la Marina Usa ha mezzi per fare entrambe le cose contemporaneamente, come i Poseidon della Boeing”.

Per la fonte sentita da InsideOver esiste quindi un ulteriore problema di natura strategica, e cioè che l’investimento lascerebbe sguarnita l’Italia sul fronte di una delle principali sfide del nostro tempo: quella del controllo dei fondali marini. “Molti pensano che i sottomarini siano una cosa da Guerra fredda, ma non è così. Abbiamo vicini molto attivi e tecnologicamente avanzati, come l’Algeria e la Turchia, e anche i russi sono in azione nel Mediterraneo. Oggi i fondali sono essenziali, specialmente per il traffico dati e per le rotte energetiche”, spiega la fonte. Ma l’assenza di una flotta antisom, paragonata alla sovrabbondanza di aerei spia in arrivo, sembra fare intendere che non vi sia l’interesse a dotare l’Italia di questo tipo di tutela.

Il nodo politico

La scelta di puntare su aerei di fabbricazione Usa e con sistemi israeliani lascia poi aperta un’altra questione segnalata su Il Tempo. Trattandosi di mezzi prodotti non solo fuori dai confini italiani ma anche da quelli europei, questi miliardi sarebbero esclusi dalla tranche del Recovery Fund che sarà impiegata per il settore Difesa. L’investimento dunque non sarebbe in alcun caso coperto dai prestiti europei.

L’esclusione della filiera europea segnala una scelta strategica di non poco conto. Francia e Germania hanno scelto di cooperare per dotarsi di un mezzo di intelligence che sia il frutto delle due industrie. Missione sicuramente difficile, perché per fare uscire un modello perfettamente utilizzabile e integrabile con i sistemi dei due paesi e della Nato serviranno molti anni. E di certo la scelta della “immediatezza” italiana paga nel breve e medio termine. Tuttavia aver definito una politica commerciale nettamente orientata verso l’altro lato dell’Atlantico (e verso Israele) conferma anche una visione che si sgancia da una certa linea europeista voluta da diversi segmenti della politica nostrana. Di fronte alle ipotesi di un sistema eurocentrico, l’Aeronautica sceglie di virare completamente verso l’industria bellica americana e israeliana, ribadendo un legame solido Oltreoceano ma anche una scelta di campo sul futuro strategico italiano.

È chiaro che l’alleanza con gli Stati Uniti e con Israele rappresenta una solidissima partnership commerciale e strategica che i governi italiani hanno sempre caldeggiato. D’altra parte, a questo fattore politico si aggiunge un tema molto più pragmatico: come spiegano le fonti, gli Usa hanno già un’ottima preparazione in campo industriale, mezzi già pronti, tecnologie all’avanguardia e si servono di economie di scala per i loro modelli che rendono tutto più semplice. L’Italia quindi non sbaglia a rafforzare in questo campo gli accordi con gli Stati Uniti se si pensa, ad esempio, all’importanza dei contratti tra Fincantieri e la Difesa americana. Tuttavia, la predisposizione a sostenere industrie extraeuropee può essere indicativa anche di una certa presa di posizione orientata verso l’asse con Washington più che con quella di Berlino e Parigi. E quindi con i desiderata di Bruxelles.

Le mosse in campo militare sono un’altra concreta manifestazione dei rapporti politici e dei loro cambiamenti. E l’accordo, letto nell’ambito delle relazioni Italia-Usa, è abbastanza indicativo. Lo spiega la stessa Dsca (Defense Security Cooperation Agency) nel testo che dà il semaforo verde alla vendita dei Gulfstream all’Italia: “Questa proposta di vendita sosterrà la politica estera e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti contribuendo a migliorare la sicurezza di un alleato della Nato, un partner importante per la stabilità politica e il progresso economico in Europa”. Un asse che negli ultimi tempi sembra esseri particolarmente rafforzato, mostrando un rinnovato desiderio da parte dei governi italiani di confermarsi gli interlocutori privilegiati degli Stati Uniti in Europa e nell’area mediterranea.