La decisione di alcuni Paesi europei di sostenere l’esercito ucraino nel suo sforzo di resistere all’invasione russa con l’invio di Mbt (Main Battle Tank), ha “scoperto un nervo” molto sensibile negli eserciti del Vecchio Continente. Un nervo che, con ogni probabilità, è alla base della riluttanza di alcuni alleati, come la Germania, ad inviare i carri armati a Kiev, e non ha nulla a che vedere col fronte del consenso interno.
Come sappiamo, la Bundeswehr – le forze armate tedesche – ha appena cominciato una fase di profonda ristrutturazione a seguito di anni, decenni, di quasi abbandono. Un abbandono che ha provocato evidenti carenze della sua struttura logistica, incapace di mantenere in efficienza i mezzi in dotazione, e una “crisi di valori” che da un lato è evidenziata dalla difficoltà di reclutamento, dall’altra si è riflessa in una politica di marginalizzazione delle esigenze delle forze armate, che, in tutti i loro rami, hanno dimostrato profondi deficit di operatività. Abbiamo già ampiamente documentato questa situazione della Bundeswehr, ma a quanto pare anche altre nazioni europee stanno affrontando problemi, se non identici, quantomeno paragonabili a quelli tedeschi.
L’Europa – o per meglio dire parte di essa – fatica infatti a racimolare gli Mbt da inviare in Ucraina, quindi si sta palesando un ritardo nelle consegne che ci sarebbe anche se non ci fossero problemi di addestramento e di moltiplicazione della linea carri dell’esercito ucraino, questione affatto secondaria per il personale addetto alla manutenzione.
Il New York Times, in un articolo recentemente pubblicato, ha definito – un po’ impietosamente – il flusso di carri europei come “un rivolo”, ma il quotidiano statunitense non ha tutti i torti.
Il Nyt riferisce che alcuni Paesi hanno scoperto che i carri armati in proprio possesso in realtà non funzionano o mancano di pezzi di ricambio. I leader politici hanno quindi incontrato una resistenza imprevista all’interno delle loro stesse coalizioni e persino dei loro ministeri della Difesa e alcuni eserciti hanno dovuto richiamare gli addestratori dalla pensione per insegnare ai soldati ucraini come usare gli Mbt vecchio modello.
Anche la Spagna, ad esempio, che si è detta disposta a fornire Mbt tipo Leopard 2A4 all’Ucraina, si è resa conto che i propri mezzi necessitano di manutenzione straordinaria, per non parlare poi di quelle nazioni che nei depositi hanno ancora il modello precedente, il Leopard 1.
Il problema è di lunga data, tanto da essere diventato strutturale per tutti gli eserciti europei con pochissime eccezioni, tra di esse la Polonia, la Svezia e la Finlandia che però hanno “tradizioni” e storie diverse rispetto agli altri Paesi del Vecchio continente.
La fine della Guerra fredda, infatti, e la nascita di un mondo “unipolare” (che è stato di breve durata), ha illuso l’Europa che l’”hard power” fosse obsoleto, pertanto non era più necessario mantenere un esercito convenzionale “di livello” con un adeguato (ed efficiente) numero di forze corazzate e meccanizzate.
La quantità di Mbt prodotti in Europa è scesa a cominciare dalla metà degli anni ’90 e, nonostante Paesi come la Germania abbiano fabbricato un numero notevole di nuovi tank (proprio le ultime versioni di Leopard 2), esso non è paragonabile a quello del periodo della contrapposizione in blocchi, quando il warfighting era in cima all’attività addestrativa degli eserciti della Nato.
Riassumendo, credendo che la guerra terrestre su larga scala fosse una cosa del passato e crogiolandosi nel disgelo della Guerra fredda, le nazioni europee hanno sotto finanziato la Difesa cronicamente, e a queste latitudini lo sappiamo bene: in Italia, nonostante gli eventi bellici, si fa ancora fatica a stanziare finanziamenti per avvicinarsi a quel 2% del Pil per la Difesa stabilito al vertice Nato in Galles nel 2014.
Quando la Russia ha lanciato la prima guerra di conquista nel continente europeo dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa si è destata bruscamente da un sogno e si è scoperta tristemente impreparata.
Eppure di segnali premonitori ce ne sono stati: senza considerare il vertice di Monaco del 2007 in cui il presidente russo Vladimir Putin per la prima volta ha evidenziato la frattura con l’Occidente, reo, secondo il Cremlino, di minacciare la Russia attraverso l’espansione dell’Alleanza Atlantica (e dell’Unione europea) verso est, la breve guerra in Georgia nel 2008 avrebbe dovuto destare un primo sonoro allarme nelle cancellerie europee. Invece abbiamo dovuto attendere il colpo di mano russo in Crimea e la destabilizzazione del Donbass ucraino nel 2014 per vedere un primo effettivo allarme in seno alla Nato, peraltro poco o nulla recepito al di qua dell’Oceano Atlantico fatto salvo per i soliti britannici e alcuni tra i Paesi più orientali dell’Alleanza, che da sempre hanno dimostrato di avere sentimenti russofobi, peraltro giustificati (e giustificabili) sia dalla loro storia sia dagli eventi del tempo e correnti.
Così mentre a Mosca si varavano piani di produzione bellica (peraltro azzoppati dalle sanzioni post annessione della Crimea) e mentre a Washington si provvedeva malvolentieri al sostegno militare dell’Europa (con la European Deterrence Initative voluta da Obama) in quanto ci si stava concentrando su una minaccia emergente (la Cina), da queste parti si continuava generalmente a sonnecchiare nell’errata convinzione che una guerra convenzionale fosse un orizzonte molto lontano, in altri scacchieri globali (quello orientale) e perfino irrealizzabile nel Vecchio continente. Il 24 febbraio 2022 Mosca ha dimostrato che si stavano sbagliando.
La fornitura di armamenti all’Ucraina ha rivelato una realtà ironicamente amara: i depositi europei non possono sostenere Kiev come vorrebbe senza intaccare la capacità di deterrenza degli eserciti. Ecco perché, oltre alla questione della scarsa manutenzione generata da anni di sottofinanziamenti, si fatica a inviare Mbt all’Ucraina: la Germania ha offerto 18 Leopard 2 e la Polonia altri 14, il Regno Unito 14 Challenger 2, i Paesi nordici come la Svezia, che da tempo spingevano per le consegne di questi tank (ma ne offrivano solo “fino a 10”), ora stanno frenando essendo alle prese con le preoccupazioni dei militari che non vogliono sguarnire le proprie fila senza che ci siano nuovi mezzi in arrivo. Mezzi che, come abbiamo già ampiamente discusso, faticano ad arrivare: l’industria bellica europea in questo momento non può garantire un’elevata produzione di Mbt (e non solo) e allora chi ha fretta di armarsi si affida altrove.
La Polonia (membro della Nato e dell’Ue), si è rivolta al mercato statunitense e sudcoreano: in arrivo, giusto per fare un esempio, gli Mbt K2 fabbricati dalla Hyundai e altri M1 Abrams statunitensi. Anche Varsavia però, come altri, non è molto propensa a cedere i suoi carri più moderni (ancora i Leopard 2) e ne invierà solo 14 (di 200 presenti negli arsenali polacchi), optando per continuare spedire all’esercito ucraino i suoi più vetusti T-72 e PT-91 ereditati dai tempi in cui faceva parte del Patto di Varsavia.
L’unica soluzione per continuare a sostenere l’Ucraina nel suo sforzo bellico e non intaccare la capacità di deterrenza europea è quella di avviare nuove produzioni – che richiedono comunque tempo -, ma per farlo servono ordini e quindi soldi: qualcuno ha recepito questo messaggio, qualcun altro fa ancora fatica a recepirlo.
A ben vedere servirebbero più investimenti (e produzioni) in ogni caso, anche se l’Europa non stesse sostenendo militarmente Kiev.