A Taiwan l’atmosfera è serena. Nonostante la Cina disti soltanto un centinaio di chilometri, le persone trascorrono la loro quotidianità senza pensare ad invasioni, offensive o attacchi missilistici. Diverso è il discorso relativo al mondo politico e militare. Le alte sfere del comando taiwanese e Tsai Ing Wen, attuale presidente dell’isola, loro sì che sono preoccupati. Sanno di poter contare sul sostegno degli Stati Uniti, ma il ruggito del Dragone fa paura.

Anche perché il futuro è ancora avvolto nella nebbia. E non solo per via delle ormai quasi imminenti elezioni presidenziali, dove il partito di Tsai si gioca la conferma al potere, ma anche a causa di pressioni, sempre più forti, in arrivo da Pechino. Tra esercitazioni e dimostrazioni di forza preoccupanti. Per capire qual è la situazione a Taiwan, e cosa potrebbe accadere in termini militari, InsideOver ha contattato il generale Giorgio Battisti, ex comandante del Corpo d’armata italiano di Reazione Rapida della Nato (Nrdc-Ita) ed ora Presidente della Commissione Militare del Comitato Atlantico Italiano, da poco rientrato in Italia dopo due settimane di permanenza sull’isola.

Generale Battisti, che aria ha respirato durante la sua recente permanenza a Taiwan?

Nella società, tranquillissima. I giovani escono e si divertono come in qualsiasi altra parte del mondo. Non si vive la sensazione di avere a che fare con il rischio di un’imminente invasione cinese. Per farle un esempio, non è come in Israele, dove si vedono forze di sicurezza ad ogni angolo di strada per difendere il Paese da eventuali attacchi terroristici. A Taiwan la presenza delle forze di sicurezza è in atto ma è molto discreta.

Il discorso cambia se guardiamo la situazione dal punto di vista dei politici e dei militari. Può spiegarci meglio?

I militari hanno il compito di difendere la loro patria, quella che considerano la loro nazione. Le alte sfere dell’esercito sono convinte, prima o poi, di doversi difendere da una aggressione cinese, e si stanno quindi organizzando in vista di uno scenario del genere. Tutte le attività addestrative e le predisposizioni difensive sono effettuate nell’ottica di ostacolare questo momento. le Forze Armate e gli ambienti governativi ritengono inevitabile un conflitto con la Cina e sono convinti che l’invasione non sia una questione di “se” ma di “quando”.

Cosa potrebbe succedere a suo avviso nel medio lungo periodo tra Cina e Taiwan (e Stati Uniti)?

Ritengo che dipenderà molto dall’esito delle elezioni presidenziali che ci terranno a Taiwan nel gennaio 2024. Per ora ci sono tre formazioni in campo. La prima è quella che fa capo all’attuale presidente Tsai Ing Wen, ossia il Partito democratico progressista (Dpp), che stando a diverse indiscrezioni dovrebbe vincere la contesa presentando l’attuale vice presidente Lai Ching-te. Se così fosse, Taiwan continuerà a mantenere una accentuata posizione di sovranità come rivendicato nel corso degli ultimi anni da Tsai. Troviamo poi il Kuomintang (Kmt), che punterà sull’ex sindaco di Taipei, Hou Yu-ih, fautore di un avvicinamento alla Cina. Infine un terzo incomodo, Terry Gou, ricco industriale taiwanese con forti interessi economici in Cina si è presentato, quasi a sorpresa, sulla scena, promettendo che porterà la pace nello stretto di Taiwan nei prossimi cinquant’anni con rapporti più collaborativi con Pechino. Insomma, molto di ciò che potrebbe accadere dipenderà dall’esito di queste elezioni e da chi sarà il prossimo presidente di Taiwan.

Che segnali sta lanciando Taiwan nei confronti di Pechino?

C’è un fatto che non è stato percepito fuori da Taiwan. I primi di agosto, il Ministro della Difesa taiwanese ha annunciato pubblicamente che dal primo gennaio 2024 la presenza della polizia militare a Taipei sarà raddoppiata per proteggere il governo da eventuali attacchi. Si passerà da circa 5mila a quasi 10mila uomini e donne solo nella capitale. Si tratta di un forte segnale, che serve, da un lato, a sottolineare l’importanza delle elezioni, e dall’altro a tranquillizzare la popolazione e far capire loro che la sicurezza è sotto controllo.

Cosa significa tutto questo secondo lei?

Se il Ministro si preoccupa di annunciare questa novità ad agosto, forse il governo teme qualcosa. Magari disordini o altre situazioni a noi non note. Ritengo, comunque, che la Cina abbia tutto l’interesse a non dimostrarsi troppo aggressiva sino al prossimo gennaio per non mettere pressione sull’elettorato taiwanese, già turbato dalla situazione di Hong Kong. Pechino cercherà di mostrare un volto benevolo, rivolto verso una pacifica collaborazione. Anche le violazioni dello spazio aereo e marittimo di Taiwan da parte del Pla (Esercito popolare di liberazione) in agosto in occasione del viaggio del vice presidente di Taipei in Sud America con sosta e contatti politici negli Stati Uniti non ha raggiunto i livelli di aggressività dell’agosto 2022 quando Nancy Pelosi, allora Speaker della Camera dei rappresentanti, ha effettuato una vista a Taiwan. Almeno fino a gennaio: poi vedremo che cosa succederà.

Prendiamo lo scenario più probabile: la riconferma del Dpp. È lecito supporre che gli Usa continuerebbero a sostenere l’isola. E non solo a parole.

Per la prima volta c’è stato da parte degli Usa un formale annuncio di una consegna – in parte in finanziamenti e in parte di armamenti – che ha seguito una procedura molto rapida. Gli Stati Uniti, stando al loro modus operandi, sono più rapidi nel fornire questa tipologia di assistenza se un Paese si trova già in guerra o prossimo ad essere aggredito, come abbiamo visto con l’Ucraina. Per una Nazione che invece non si trova in una situazione di conflitto armato, la consegna di aiuti militari è solitamente molto più lenta, perché deve prima passare attraverso diversi gradi di valutazione a livello politico. Questa volta Washington, per Taiwan, ha accelerato i tempi come se Taipei fosse prossima ad essere interessata ad una crisi. Si tratta di un forte segnale lanciato verso la Cina. Per la prima volta inoltre gli americani hanno resa pubblica la presenza di circa 500 soldati statunitensi sull’isola, incaricati di addestrare le forze armate taiwanesi. Lo si sapeva a livello di indiscrezioni ma ora è arrivata la conferma ufficiale, anche in termini numerici (nonostante si parli di un numero di militari superiore alle circa 500 unità riportate).

L’esercito di Taiwan è in grado di resistere ad un’offensiva cinese?

La guerra in Ucraina ha fatto riflettere molti Paesi, soprattutto occidentali e dell’Alleanza atlantica. Anche la Cina ha iniziato a prestare attenzione a quel conflitto. In particolare, Pechino si è resa conto che anche una piccola nazione, in termine di peso politico, economico e militare, può essere in grado di ostacolare e rallentare un’invasione condotta da un soggetto statuale molto più grande. Se facciamo il confronto tra Ucraina e Taiwan, i cinesi per conquistare l’isola devono attraversare uno stretto marittimo e allestire una forza da sbarco non indifferente. Attenzione però, perché l’azione militare sarebbe l’ultima risorsa della Cina. Il governo cinese non avrebbe alcun interesse nel bombardare e poi ricostruire ex novo Taiwan, e cercherà quindi, fino all’ultimo, di ottenerne il controllo di Formosa senza ricorrere all’opzione militare.

La Cina troverebbe vita facile in un fantomatico sbarco sull’isola?

Il concetto difensivo di Taiwan si basa su di una organizzazione che imponga un elevato tasso di perdite all’avversario, sia in termini di mezzi sia di personale, per costringerlo a desistere dall’invasione, colpendolo sin dai porti di partenza, lungo l’attraversata dello stretto, sulle spiagge qualora riuscisse a sbarcare e con una logrante guerriglia nel caso fosse in grado di penetrare nel territorio. L’Ucraina ha dimostrato come sia possibile condurre questa forma di lotta. Senza dimenticare che la Cina dovrebbe allestire una consistente forza anfibia; un’impresa complicata visto che oggi, con sistemi radar, satellitari e informatori, Taiwan ne verrebbe a conoscenza quasi all’istante. In ogni caso a Taipei e dintorni si stanno organizzando. Lungo la costa occidentale dell’isola, più pianeggiante e che si presterebbe meglio agli sbarchi, le spiagge sono quasi tutte ristrette, sia dall’urbanizzazione sia da strade sopraelevate, ma anche da predisposizioni difensive e ostacoli disposti in loco per ridurre i margini di manovra di uno sbarco nemico, senza dimenticare la possibilità di minare le spiagge con il sistema Vulcano, recentemente fornito dagli Usa, che permette una rapida dispersione delle mine. I taiwanesi sono organizzati nei punti più sensibili del territorio. Ad esempio, alla foce del fiume che unisce Taipei al mare è in fase di costruzione un ponte per impedire la risalita di eventuali imbarcazioni militari di grandi dimensioni, come gli hovercraft cinesi in grado di trasportare sino a 500 uomini e alcuni mezzi da combattimento.

Taiwan è soltanto la punta dell’iceberg del confronto tra Cina e Stati Uniti per il controllo dell’Oceano Pacifico. Può spiegarci meglio per quale ragione?

La Cina, se guardiamo una mappa della regione, deve fare i conti con una specie di barriera virtuale che le impedisce di lanciarsi in un’espansione marittima verso l’Oceano Pacifico. Questo “muro” è formato dalla serie di isole di Taiwan e delle Filippine, separate dallo Stretto di Luzon. Prima di esso, l’acqua è poco profonda, massimo una cinquantina di metri; oltre “l’ostacolo” si arriva invece all’Oceano che ha una profondità di migliaia di metri (mediamente oltre 4.000 m). Dunque, alla Cina, oltre al prestigio di poter conquistare de facto l’ultima parte di territorio non presa da Mao Zedong, interessano anche altri due aspetti: uno commerciale, per il traffico marittimo che passa lungo lo Stretto di Taiwan (il 60% circa di quello mondiale), e uno strategico. I sommergibili nucleari cinesi, infatti, per raggiungere le acque del Pacifico devono passare attraverso il citato Stretto di Luzon, dove sono facilmente visibili poiché l’acqua è trasparente e poco profonda. Pechino vorrebbe occupare Taiwan anche per avere una proiezione verso il Pacifico, che però gli Usa considerano un “proprio” oceano.

Grazie alla partnership con la Russia, la Cina non potrebbe utilizzare Vladivostok per puntare sul Pacifico?

Quando un sottomarino a propulsione nucleare si immerge nelle acque profonde del Pacifico risulta difficile individuarlo (e neutralizzarlo) e quindi costituisce una minaccia imprevedibile in caso di conflitto nucleare. Per poter arrivare in una posizione del genere, la Cina deve arrivare a quelle acque. Il porto russo di Vladivostok è molto distante dalle basi dei sommergibili cinesi e inoltre, osservando una mappa della regione, si nota che le acque (Mar del Giappone) difronte a tale porto sono sostanzialmente “chiuse” dalla Corea del Sud e dalle isole giapponesi. L’uscita dei sommergibili sarebbe ancora più complicata.

Più che uno sbarco, non avrebbe più senso per la Cina ragionare su un blocco continuato nel tempo, in modo tale da aspettare che le risorse di Taiwan si esauriscano?

La risposta è affermativa. E infatti a Taiwan stanno valutando questo scenario. Al momento l’isola ha una autonomia energetica di circa 14 giorni. Un blocco navale (ed aereo) potrebbe essere un modo per interdire i rifornimenti marittimi per l’isola (supply chain), la cui sopravvivenza dipende in buona parte dai prodotti provenienti dall’estero. Il governo di Taipei, ben consapevole del problema, ha iniziato a studiare/individuare soluzioni che possano aumentare la propria autonomia, anche se la questione non è di facile soluzione.

Cosa potrebbe succedere in quel caso?

Alcuni giorni orsono navi della guardia costiera cinese hanno cercato di impedire, con cannoni ad acqua, ad una piccola imbarcazione filippina di rifornire la guarnigione militare sull’isola contesa di Second Thomas nel contestato arcipelago del Mar della Cina Meridionale. La volta successiva, la nave di Manila è stata seguita (scortata) a distanza da navi da guerra Usa e non ha incontrato difficoltà ad arrivare sull’isolotto. Una presenza che è servita per garantire un minimo di sicurezza al mezzo filippino. Bisognerà capire come intenderebbero comportarsi gli Stati Uniti con Taiwan nel caso in cui dovesse esserci una situazione di blocco. Washington, anche se si è un po’ distratta dalla guerra in Ucraina, considera sempre prioritario il Teatro del Pacifico. È da ritenere, inoltre, che un eventuale crisi (conflitto?) non si limiti ad interessare solo la Cina e Taiwan ma possa estendersi a tutto l’Indo-Pacifico coinvolgendo la Corea del Nord (alleata di Pechino), gli Usa, il Giappone, la Corea del Sud, e forse altri Paesi della regione (Australia?).

In che senso?

Gli Stati Uniti si stanno sempre più consolidando con una forte presenza militare sia nelle Filippine, con quattro nuove basi sulle isole a nord più vicine a Taiwan, sia nelle basi giapponesi sia negli avamposti nelle isole americane nel Pacifico (in primis Guam). A tale potenziamento del dispositivo aereo-terrestre-navale si aggiunge la ristrutturazione in atto del Corpo dei Marines che sta cedendo i propri equipaggiamenti pesanti (carri armati, artiglierie, ecc.), necessari per la condotta delle operazioni di controinsurrezione, per ritornare ad essere una forza da sbarco leggera e flessibile come nella Seconda Guerra Mondiale da impiegare nello stesso quadrante geografico (non a caso i reggimenti ora si chiamano Marine Littoral Regiments). Iniziative che richiederanno alcuni anni prima di essere operative ma che sembrano esprimere con i fatti la volontà di Washington di contenere le ambizioni di Pechino.

Secondo valutazioni locali un eventuale conflitto, salvo imprevisti, non avrebbe luogo prima del 2035, quando la riforma delle forze armate cinesi dovrebbe essere compiuta. Però sono tutte valutazioni sulla carta. Possono infatti esserci incidenti o altro ancora. Xi Jinping potrebbe essere tentato di effettuare un’azione esterna, come occupare una piccola isola sotto il controllo di Taiwan, per distogliere l’attenzione della propria società dai problemi economici interni, come ad esempio la piccola isola corallina e disabitata di Pratas, a 450 km a sud di Taiwan, posta nel mezzo dello stretto di Luzon, che mette in comunicazione il mar delle Filippine a est con il mar Cinese meridionale a ovest. In ogni caso, anche se fosse, non penso che Pechino possa azzardare qualche passo del genere prima delle elezioni taiwanesi del 2024.

In tutto questo che ruolo gioca l’Italia, da partner Usa e membro della Nato?

Nei 49 punti in cui è articolato il recente concetto strategico della Nato 2022, la Russia viene citata 12 volte come avversario, mentre la Cina viene menzionata 10 volte come competitor, secondo il concetto che qualsiasi evento accada nell’Indo-Pacifico ha diretti riflessi in Occidente. L’80%, se non di più, dei nostri prodotti quotidiani proviene del resto da quell’area (materiali lavorati, terre rare, medicinali, scarpe da ginnastica, ecc.). Sussiste quindi un collegamento molto forte tra noi e l’Indo-Pacifico.

Si va quindi verso una Nato asiatica?

Parlare di Nato asiatica è una semplificazione giornalistica scaturita dall’incontro avvenuto lo scorso agosto a Camp David tra il Presidente Biden, il primo ministro giapponese Fumio Kishida e il Presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol. In realtà, questo incontro era finalizzato a definire una base di collaborazione comune dei tre Paesi che consenta lo scambio di informazioni, la condotta di esercitazioni congiunte e la consultazione in caso di particolari eventi, oltre verosimilmente ad un tentativo di rafforzare il fronte interno di Biden in vista delle prossime consultazioni presidenziali. Un’azione, per intendersi, simile a quella fatta a suo tempo da Donald Trump, che ha concluso gli Accordi di Abramo (2020).

Realizzare una Nato asiatica, poi, sarebbe estremamente difficile, poiché i Paesi da coinvolgere – compresa l’Australia che è un nostro caposaldo – hanno ottimi rapporti economici con la Cina. Dobbiamo pensare che non siamo più ai tempi della Guerra Fredda dove esistevano due blocchi rigidi e ben strutturati.

Da precisare che nell’Indo-Pacifico esistono già altre analoghe forme di collaborazione nel campo della sicurezza e con le stesse finalità: il Quad/Quadrilateral Security Dialogue (Australia, Giappone, India e USA) e l’Aukus (Australia, Regno Unito e Usa).

Niente interventi Nato in Asia, dunque?

L’Alleanza atlantica non potrebbe intervenire nell’Indo-Pacifico come “bandiera Nato” per i limiti previsti dal Trattato del Nord Atlantico, a meno di una concreta minaccia (militare) proveniente da quella regione. Alcuni Paesi membri dell’Alleanza, come Regno Unito, Canada, Francia (che ha propri territori oltremare), e forse in futuro anche la Germania, hanno iniziato a prevedere una propria presenza navale nell’Indo-Pacifico come singole nazioni (oltre ovviamente agli Stati Uniti).

L’anno prossimo anche la nostra Marina militare ha preannunciato una crociera della portaerei Cavour con un gruppo navale, dopo la crociera di Nave Morosini di quest’anno. Si tratta di diplomazia marittima che serve a dimostrare l’interesse dell’Italia verso quella parte del mondo, anche in relazione al programma (Global Combat Air Programme/Gcap) per la realizzazione di un velivolo da combattimento della sesta generazione tra Regno Unito, Giappone e Italia.

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