La supply chain, o catena di rifornimento della logistica militare, è un’organizzazione fondamentale per poter condurre operazioni belliche in modo efficace al pari del possesso di forze armate bene addestrate (e motivate) e di armi idonee al tipo di conflitto che si deve (o prevede) di affrontare.
La capacità di rifornimento di munizioni, viveri, materiale medico “dal magazzino alla trincea” viene risolta con un apparato logistico che coinvolge tutte le risorse e i mezzi (anche di tipo civile) di un Paese e sfrutta lo strumento aeronautico, navale e terrestre. Sostanzialmente l’architettura della catena di approvvigionamento è rimasta invariata dalla Seconda Guerra Mondiale: si utilizzano navi, velivoli e veicoli per portare tutto il necessario alle truppe impegnate in combattimento. Il miglioramento tecnologico di certi mezzi di trasporto, nella fattispecie quelli aerei, ha solamente implementato il rapporto carico trasportato / mezzo utilizzato rispetto al tempo impiegato: oggi un velivolo come il C-17, o l’intramontabile C-130, può trasportare, singolarmente, un elevato carico in breve tempo su piste avanzate.
Resta però il problema rappresentato “dall’ultimo miglio” di questa catena, ovvero il trasporto dai centri di stoccaggio e smistamento avanzati sino al fronte. Ancora oggi si usano veicoli terrestri, esattamente come 80 anni fa, che oltre ad avere lo svantaggio di essere legati a linee di comunicazione (strade) che non sempre sono percorribili, rappresentano un bersaglio altamente pagante per l’azione avversaria: interrompere i rifornimenti significa cambiare le sorti di uno scontro se non di un intero conflitto.
L’attuale conflitto in Ucraina, essendo di tipo “semi-simmetrico” intendendo con questo termine uno scontro tra due entità statuali che vede l’utilizzo classico delle forze armate insieme a tattiche di guerriglia, ha rinfrescato la memoria della fragilità di questo sistema: i veicoli russi carichi di rifornimenti sono stati oggetto di attacchi “mordi e fuggi” da parte dell’esercito ucraino che ha saputo sfruttare alcuni fattori contingenti e universali come, rispettivamente, la scarsa diffusione della rete stradale e la lunghezza delle linee di rifornimento. Kiev, consapevole di questa fragilità intrinseca, ha infatti esplicitamente dato ordine di concentrare gli attacchi sulle colonne di camion russi carichi di munizioni, carburante e viveri per i soldati in prima linea, ottenendo, principalmente nella prima fase del conflitto, un effetto ritardante dell’avanzata russa che in alcuni casi è stata addirittura fermata.
La guerra in Ucraina, però, è anche una guerra di droni. Come abbiamo già avuto modo di dire in precedenza, nel conflitto entrambe le parti stanno facendo largo uso di Uav (Unmanned Air Vehicle) di tipo diverso e non solo militare. Soprattutto da parte ucraina sappiamo che droni di tipo commerciale sono stati impiegati per la sorveglianza del campo di battaglia, la ricognizione e anche per l’acquisizione dei bersagli per l’artiglieria, inoltre abbiamo assistito allo sgancio di piccole bombe da mortaio su bersagli puntiformi (veicoli e concentrazioni di truppe) in modo efficace dal punto di vista del rapporto costi/benefici. Giova ricordare ancora una volta che Ucav (Unmanned Combat Air Vehicle) come i Bayraktar TB2 di parte ucraina, e gli Orion di parte russa, sono stati particolarmente efficaci durante il conflitto in atto, come evidenziato dai filmati che ci sono giunti dai rispettivi organi di propaganda. In particolare i Bayraktar, per le loro dimensioni e capacità di carico utile, sono quelli che forse rappresentano meglio questa forma di condurre le operazioni belliche, sebbene si siano già visti in azione nel breve conflitto del Nagorno-Karabakh del 2020 e ancora prima in Siria.
Se uno Uav viene pensato oggi principalmente come una piattaforma di attacco e Istar (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition and Reconnaissance), lo si deve per la sua capacità di avere raggio d’azione, carico bellico e durata di missione pari o superiore a quelle di un cacciabombardiere pilotato senza “l’inconveniente” della messa in pericolo della vita di un pilota, che per essere formato richiede un investimento pluriennale molto costoso.
L’utilizzo di piccoli droni per compiti di sorveglianza/ricognizione è invece fondamentale per quella che si chiama “situational awareness” sul campo di battaglia, fornendo dati in tempo reale alle truppe impegnate in combattimento.
Questa lunga premessa ci porta a quello che è il fulcro della nostra trattazione, ovvero se sia possibile usare i droni per poter coprire quel “ultimo miglio” della catena di rifornimento per le truppe. Qualcosa di simile era già stato tentato, privatamente, durante il conflitto in Siria: un privato, ex pilota di C-17 dell’Usaf, ha varato un progetto chiamato Syria Airlift per cercare di portare aiuti medici alla popolazione martoriata dalla guerra e sotto assedio.
Il progetto è fallito per molte ragioni: il team di volontari mancava di un modello di business sostenibile; sono andati incontro a difficoltà per ottenere l’affidabilità di cui c’era bisogno dalla tecnologia emergente dei droni; quando la guerra siriana è diventata più complessa e l’autoproclamato Stato Islamico si è scatenato in tutta la Siria, la volontà degli investitori di sostenere lo sforzo della società è svanita; infine l’effettivo valore delle consegne tramite drone è rimasto incerto.
Il creatore di questo progetto ha anche individuato le sfide per un’attività di questo tipo, da lui ritenute pressoché insormontabili: conoscere lo scopo dell’attività, ovvero sapere cosa inviare e nelle giusta quantità; capire se ha senso consegnare tramite drone per una questione legata al peso dei carichi trasportabili e quindi al rapporto costi/efficacia stante le condizioni che si trovano nell’ambiente operativo; scegliere la giusta tecnologia di consegna intendendo la tipologia di drone, il tipo di propulsione e la definizione della giusta autonomia di servizio; ridurre il più possibile il costo per chilogrammo trasportato; determinare il luogo di lancio, che sul campo di battaglia può facilmente essere soggetto ad attacchi avversari e non deve coinvolgere Paesi terzi; costruire un’organizzazione per operare su larga scala che richiede risorse e tempo; ottenere un elevato grado di affidabilità quindi avere una formazione approfondita e rigorose; trovare finanziatori e partner e quindi mitigare i rischi associati a questo tipo di attività (prevalentemente di tipo reputazionale); sviluppare infrastrutture per la ricezione degli aiuti; sviluppare un modello di business sostenibile; costruire una rete logistica internazionale infine sopravvivere in un ambiente fortemente ostile e altamente contestato come quello di un conflitto tra Stati dotati di armamenti moderni.
L’analisi fatta, quindi, sembra che ammetta la possibilità di usare droni di piccole/medie dimensioni per poter consegnare, in questo caso, aiuti a truppe circondate o al fronte, oppure alla popolazione civile sotto assedio, ma il fallimento di Syria Airlift non deve far pensare che sia del tutto impossibile un’operazione del genere.
L’esperienza fatta dal fondatore del progetto era destinata a fallire perché partita con una premessa sbagliata, ovvero quella di voler affidarsi esclusivamente a finanziatori civili, quindi a privati che hanno comunque limitate possibilità finanziarie e di progettazione. In campo militare sarebbe invece possibile emanare dei requisiti per un drone di piccole/medie dimensioni in grado di poter avere un’adeguata capacità di carico e autonomia e quindi essere usato per poter percorre quel “ultimo miglio” che manca alla catena logistica in relativa sicurezza.
Innanzitutto un progetto sovvenzionato dalla Difesa potrebbe mettere a sistema più realtà, civili e militari, che lavorando in sinergia sarebbero in grado di arrivare alla definizione di un sistema dai requisiti accettabili: tra i 50 e i 100 chilogrammi di carico e autonomia tra i 100 e i 150 chilometri, con dimensioni non eccessive e soprattutto con un disegno che permetta di poter immagazzinare lo Uav in contenitori ermetici, con ali estraibili magari simili a quelle di alcune loitering munitions. Il drone sarebbe standard, e lanciato in sciami in modo da poter consegnare complessivamente un adeguato carico di materiale, ma soprattutto la piattaforma di lancio sarebbe duale (navale e aerea) ma con una maggiore vocazione marittima: pensiamo a dei lanciatori containerizzati trasportabili su unità di superficie o a sistemi lanciabili da sottomarini sfruttando i tubi lanciasiluri o i Vls (Vertical Launch System) lanciamissili.
La piattaforma aerea sarebbe invece su un carico pallettizzato paracadutato da un aereo da trasporto ad alta quota (fattore che aumenterebbe anche la portata dei droni), al di fuori del raggio d’azione dei sistemi missilistici avversari. Qualcosa che già avviene in modo sperimentale per il lancio dei missili da crociera. Questi Uav lavorerebbero in modo automatico, venendo equipaggiati con sensori passivi (una videocamera) che raffronterebbero le immagini riprese con la rotta preimpostata (di andata e ritorno) in modo da poter consegnare il carico in modo preciso e poi ritornare in territorio amico senza emissione di segnali.
Si tratta di un progetto molto ambizioso, e come tale solamente le risorse economiche di uno Stato potrebbero affrontarlo in modo efficace.