L’Italia prepara la corsa al riarmo. Dopo il recente ordine del giorno leghista sottoscritto alla Camera dalla stragrande maggioranza dei partiti rappresentati in Parlamento il governo Draghi vuole rispondere alla necessità di predisporre “un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione” mentre nell’immediato si dovrebbe agire per “incrementare alla prima occasione utile il Fondo per le esigenze di difesa nazionale”. Il fondo pluriennale battezzato nel 2020 dal Ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Pd), recentemente finito sotto attacco da parte della Russia per le sue presunte posizioni di “falco” atlantista, è già stato alimentato con 12,5 miliardi di euro sia nella Legge di Bilancio 2021 che in quella del 2022. Ora il potenziamento di questo fondo è ritenuto cruciale per predisporre un aumento sostenibile della spesa militare.
L’Italia si riarma
Il ragionamento è chiaro: qualità, prima ancora della quantità. La crescita, in questo secondo campo, è già tracciata da prima della guerra russo-ucraina. L’Osservatorio Milex ha stimato che nel 2022 “l’aumento di 1,35 miliardi” di euro del Bilancio del Ministero della Difesa (+5,4% su base annua) ha “trainato la crescita della spesa militare italiana”. Nel complesso le spese militari hanno “superato il muro dei 25 miliardi (25,82 in totale) con un aumento del 3,4% rispetto al 2021 e un balzo di quasi il 20% in 3 anni” destinando “un miliardo in più per l’acquisto di nuovi armamenti: 8,27 miliardi complessivi (record storico) in aumento del 13,8% rispetto all’anno scorso, con un salto del 73,6% negli ultimi tre anni (+3,512 miliardi rispetto ai 4,767 miliardi del 2019”. Ed è proprio su questo ultimo fronte che si mira a aumentare le prospettive di investimento.
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CAUSALE: Reportage Ucraina
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Nell’ottica piuttosto che raggiungere entro il 2024, come prescritto dalla Nato nel 2014, il tetto del 2% di spesa pubblica su Pil in Difesa (ora è all’1,4% circa) sia meglio stabilizzare la competitività del sistema-Paese nelle catene del valore del settore, Guerini ha in mente un piano. Fare, cioè, del Fondo pluriennale “uno strumento di finanziamento con proiezione a 15 anni dove far confluire voci di spesa fino ad allora disseminate in vari ministeri”, sottolinea La Stampa. L’obiettivo è mobilitare 60 miliardi di euro nei prossimi quindici anni. “In Italia, dove le preoccupazioni sono storicamente rivolte verso il Mediterraneo, negli anni si è alleggerito il capitolo di spesa militare fino a portare la percentuale dei contributi in rapporto al Pil nella parte bassa della classifica dei membri Nato”, prosegue il quotidiano torinese, aggiungendo che nel Documento di Economia e Finanza la spesa prevista sarà di circa l’1,54% del Pil. La via tracciata da Guerini anticipa le svolte di altri Paesi, come la Germania, che ha previsto un fondo simile a quello attivo già da due anni in Italia dal valore di 100 miliardi di euro.
La Difesa non è un costo, è un valore
Il 2% delle spese militari sarebbe fissato in un target di 38 miliardi di euro, al valore attuale di Pil e spesa pubblica. E questo va però mediato con la necessità di creare valore aggiunto per il sistema Paese: dalla ricerca compiuta da aziende come Leonardo e Fincantieri fino alla partecipazione italiana nei grandi programmi internazionali (dalle Fremm al caccia Tempest) già il Documento Pluriennale per la Programmazione degli investimenti nella Difesa del 2021 fissava roadmap precise che ora vanno sostenute con ricerche in tecnologie critiche, competitività, sviluppo. Valorizzando la consapevolezza che la Difesa non è un costo, è un valore.
Secondo le stime di Aiad (la Confindustria delle industrie del settore presieduta dall’onorevole Guido Crosetto) il totale delle aziende di questo settore operanti in Italia apporterebbe, ogni anno, un valore aggiunto importante all’economia generando un fatturato complessivo di 15,5 miliardi di euro. Ambrosetti, in un report del 2018, indicava una cifra simile, attorno ai 14 miliardi. Su questa leva può crescere, oggigiorno, la strutturazione del Paese in materia di sviluppo industriale funzionale alla crescita della Difesa.
Il Copasir, il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza di Palazzo Chigi nella sua ultima relazione annuale, il ministero della Difesa e gli altri apparati stanno da tempo costruendo un framework che unisce proiezione dell’interesse nazionale, tutela della sovranità, valorizzazione del ruolo pubblico della Difesa e accrescimento del patrimonio industriale, tecnologico e scientifico nazionale.
La via dell’interesse nazionale
Solo in quest’ottica la crescita delle spese militari può avere una ratio ben chiara: dove orientare la spesa? Su che programmi e che modelli di investimento? Su che tecnologie e che filiere puntare? Con che partner costruire la Difesa di domani? Un aumento dettato da fini “emotivi” come quello della guerra russo-ucraina non permetterebbe di rispondere chiaramente a tali quesiti. E di sfruttare il valore che la Difesa può assumere come “laboratorio” della nuova via nazionale alla politica industriale nel quadro di un paradigma contraddistinto dal ritorno della sicurezza nazionale come driver degli investimenti e dello Stato come attore chiave.
Il keynesismo militare all’italiana può produrre sicurezza collettiva, valore aggiunto per il sistema Paese, crescita contribuendo all’interesse nazionale. A patto che i programmi siano ben indirizzati: dal Tempest alle Fremm, dai nuovi fronti della cybersicurezza alla necessità di incubare start-up, centri di ricerca e aziende operanti nella frontiera infinita delle nuove tecnologie (indicata come priorità dal documento Scenari Futuri dello Stato Maggiore della Difesa che guarda al 2040) bisognerà riflettere con attenzione. Spalmare 60 miliardi di euro da qui al prossimo quindicennio significa compiere un investimento sull’avvenire. A cui far seguire riflessioni politiche e strategiche sul da farsi, nel contesto di un quadro securitario profondamente mutato in tutta Europa.