La Legge 185 del 1990 è una delle norme chiave per determinare la posizione dell’Italia nel mercato internazionale della Difesa. Un settore dotato di elevata rilevanza strategica, pontiere di alleanze industriali e politiche di taglio internazionale e volano di sviluppo scientifico e tecnologico ma al contempo estremamente delicato per le implicazioni securitarie, umanitarie e di diritto internazionale. La Legge 185, in tal senso, ha provato a garantire una quadratura del cerchio imponendo alle aziende esportatrici di sistemi d’arma di ottenere una licenza governativa per i contratti con l’estero e vietando ad esse di fornire armi a Paesi in conflitto armato, in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione (in cui si afferma che l’Italia “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”), o che violano i diritti umani dei loro cittadini.
La legge è stata ritenuta negli anni un presidio fondamentale dalle organizzazioni che si battono per il disarmo, è stata criticata da diversi analisti ed esperti nel settore che sottolineano come il bando all’export militare possa in ultima istanza favorire nostri concorrenti nel settore senza rimuovere gli ostacoli che causano le guerre ed è stata interpretata a corrente alternata dalla politica, che negli ultimi anni ha di fatto mostrato le difficoltà nell’applicazione di una normativa tanto complessa. Ad esempio, la scelta dell’Italia di procedere alla consegna delle Fremm destinate all’Egitto nonostante le critiche legate alla condizione dei diritti umani sotto il governo di Al Sisi nelle settimane in cui il governo Conte II fermava, a inizio 2021, la consegna di armi a Arabia Saudita e Yemen è stata criticata in ogni modo: da chi voleva un bando totale, da chi riteneva sovrabbondante anche solo quello alle monarchie del Golfo, da chi a vario titolo ha accusato l’esecutivo di doppia morale.
La realtà dei fatti è che la Legge 185/90 mostra il segno degli anni. E questo in una fase in cui la competizione industriale nel settore della Difesa sta acquisendo forme sempre più eterogenee e ibride, specialmente sulla scia dell’impegno dei campioni nazionali di Paesi come l’Italia in settori quali l’elettronica di precisione o le tecnologie spaziali e dei cambiamenti del sistema internazionale. In un recente panel tematico organizzato dalla rivista Formiche, ad esempio, il sottosegretario al ministero della Difesa Giorgio Mulé, esponente di Forza Italia, ha criticato la normativa “rigida e antiquata” sull’export in relazione alle alleanze militar-industriali tra l’Italia e il Regno Unito. Incentrate, com’è noto, sul programma Tempest per un caccia di sesta generazione ma estese anche al mondo della componentistica, dell’avionica, dell’elettronica. La Legge 185/90, nota Mulé, fa sì che il Regno Unito sia trattato alla stregua di un qualsiasi Stato terzo, a dispetto dei fortissimi legami tra i Paesi. Secondo l’esponente forzista è necessaria “una riflessione, non più rinviabile, per aggiornare la legge 185/90”, ha detto il sottosegretario Mulé, cosicché l’Italia possa scambiare equipaggiamento da difesa non solo con il Regno Unito, “partner fondamentale”, ma anche con altri Paesi like-minded.
Certo, gli accordi siglati tra Ue e Londra per la formalizzazione della Brexit consentono di condividere le informazioni classificate ricevute da Bruxelles e dagli Stati membri provenienti da Oltre Manica con altre istituzioni e organi dell’Unione, ma solo dopo avere ottenuto un preventivo consenso scritto della parte fornitrice, e questo si applica anche alle tecnologie critiche scambiate da aziende come Leonardo e British Aerospace in virtù degli accordi industriali siglati dai governi. Tuttavia, ad oggi il Regno Unito ha un’unica eccezione normativa alla condizione di Paese terzo nell’essere un membro Nato: se in futuro, ad esempio, Londra dovesse trovarsi coinvolta in un conflitto senza un parallelo impegno dell’Italia la legalità ex lege di collaborazioni sistemiche come quella italo-inglese rischierebbe di essere messa a repentaglio in sede giudiziaria.
Riformare la 185/90 può dunque essere utile per garantire che industrie e governi futuri siano vincolati a condizioni più precise e meno soggette all’umoralità dell’interprete di turno, ammesso che nel campo degli armamenti si possa davvero tracciare una linea netta tra moralità, interessi economici e doppi giochi. Nel 2020 l’export di armi è stato pari a poco meno di 4 miliardi di euro, in calo del 25% rispetto al 2019, con la pandemia che è stata in parte compensata dall’effetto traino legato alle commesse conquistate nel 2015 e continuate nel biennio successivo (8,2 miliardi in quell’anno, 14,9 miliardi nel 2016 e 10,3 nel 2017). Logico pensare che gli attori del settore chiedano certezze e pragmatismo, mentre sul fronte opposto la Legge 185/90 è difesa strenuamente da settori legati alla Rete per il Disarmo e ad ambienti favorevoli alle istanze pacifiste. Trentatrè organizzazioni della società civile, da Greenpeace a Nigrizia, da Save the Children ad Arci passando per Pax Christi e Fondazione Finanza Etica, sono recentemente scese in campo con un comunicato congiunto in difesa della legge che regola l’export di armi italiane. Il confronto sarà serrato: serve un nuovo bilanciamento tra la garanzia delle alleanze e dell’interesse del sistema Paese, le necessità strategico-industriali e la chiarezza normativa. Nella consapevolezza che spesso le armi possono servire anche a prevenire le guerre, ma che il limite è spesso difficilissimo da superare. Specie quando i clienti sono attori decisamente problematici come molti attori con cui l’Italia commercia in armamenti.