Tra la stipulazione di nuovi accordi e il rafforzamento delle alleanze, la strategia dell’amministrazione Biden per contenere la Cina nell’Indo-Pacifico procede apparentemente senza intoppi. Gli Stati Uniti, che possono di per sé vantare una massiccia presenza nel cortile di casa cinese, hanno deciso di riorganizzare la loro postura in uno dei teatri più caldi del pianeta. Anche perché, mentre nell’ultimo decennio le forze armate cinesi hanno continuato a crescere, sviluppandosi e migliorando le loro capacità, la deterrenza Usa nell’area ha perso gradualmente efficacia. In parte per via di precise scelte politiche, come il disimpegno militare all’estero di Donald Trump, e in parte a causa di altri dossier scottanti che hanno attratto risorse e attenzioni.

Lo schema sposato dalla Casa Bianca è insomma rimasto pressoché invariato dagli anni Cinquanta ad oggi. Washington può contare su circa 55mila soldati dislocati in Giappone, su altri 28mila in Corea del Sud e su svariate migliaia di unità sparse tra Australia, Thailandia, Filippine e Guam. Qualsiasi piano per rinvigorire, o ridare linfa, alla presenza Usa in Asia è stato ostacolato, quando da budget ristretti e quando da altre priorità, per non parlare, poi, della mancanza di consenso nelle stanze del potere statunitensi su come trattare con la Cina, tra falchi e colombe in perenne disaccordo tra loro.

Certo, con l’aumentare delle tensioni il Pentagono ha aumentato gli investimenti in tecnologie all’avanguardia – come l’intelligenza artificiale e i sistemi informatici e spaziali – per prepararsi ad un possibile conflitto high-tech con la Cina negli anni Trenta. Ma, come ha scritto il New York Times, è probabile che l’equilibrio di potere si sposti decisamente a favore della Cina nel momento in cui questi jolly verranno schierati, a meno che gli Stati Uniti non portino presto sul tavolo nuove idee. Puntualmente concretizzatesi con l’inevitabile scelta di creare una complessa rete di partner da attivare, a turno o in sintonia, per mettere i bastoni nelle ruote del Dragone.



Il piano di Biden

Nel piano di Joe Biden rimane sempre una falla: non ci sono ancora risorse sufficienti (o per lo meno quante ne sarebbero richieste) per adattare la postura Usa alle sfide cinesi nell’Indo-Pacifico. Già, perché se è vero che Washington ha posto fine alla sua lunga e costosa presenza in Afghanistan, è altrettanto vero che lo scoppio della guerra in Ucraina si è trasformato in un impegno a lungo termine, con svariate decine di miliardi di dollari richiesti per supportare Kiev contro la tentata avanzata di Mosca.

Che cosa possono fare, allora, gli Stati Uniti? Innanzitutto, dare la massima priorità al dossier cinese, rafforzando la propria forza militare in Asia e fornendo ad Australia, Giappone e India capacità militari e tecnologiche più sofisticate per dare vita ad una strategia di difesa collettiva. Dovrebbero inoltre espandere la Pacific Deterrence Initiative, che consentirebbe agli Usa di indirizzare la spesa aggiuntiva verso il rafforzamento della presenza militare statunitense a ovest delle Hawaii, dislocare più forze nella regione e rendere più efficiente sia la logistica e che le proprie difese aeree.

Biden, come detto, ha fatto importanti passi in avanti in questa direzione. Ad esempio partorendo l’accordo Aukus, in base al quale gli Usa lavoreranno con la Gran Bretagna per fornire all’Australia sottomarini a propulsione nucleare e sviluppare altre tecnologie militari avanzate.

Ci sono però due piccoli problemi. Il primo: i suddetti sottomarini dovrebbero essere operativi soltanto a partire dalla fine degli anni Trenta, quando cioè potrebbe ormai essere troppo tardi. Il secondo: la collaborazione con Canberra e Londra implica a Washington la condivisione di know how e tecnologie sensibili ai fini della propria sicurezza nazionale. Detto dell’Australia, gli Stati Uniti danno l’impressione di voler sostenere gli obiettivi del Giappone di costruire missili a lungo raggio, condividendo altre informazioni sensibili con un partner, fornire più armi all’India, acerrima rivale cinese, oltre che aumentare le capacità di deterrenza di Taiwan. Scelte che scuotono il tepore Usa in Asia, ma che nel medio-lungo periodo potrebbero generare una corsa al riarmo dei nemici di Washington in Asia.

La rete Usa nell’Indo-Pacifico

Ogni partner asiatico degli Usa, nei piani di Biden per contenere la Cina ricopre un ruolo ben preciso. Partiamo dall’Australia, centrale per limitare la possibile fuga di Pechino nel Pacifico e per questo perno di Aukus. Non solo: gli Stati Uniti hanno fatto sapere che espanderanno la propria base industriale militare, aiutando Canberra a produrre missili e razzi guidati per entrambi i Paesi entro un paio di anni. Del resto, appena un anno fa le società statunitensi Raytheon e Lockheed Martin hanno fondato un’impresa australiana per costruire proprio queste armi. In caso di necessità, dunque, il governo australiano potrebbe risultare strategico anche per il fatto di diventare un produttore di munizioni (peraltro già situato nell’Indo-Pacifico, e senza quindi problemi logistici di alcun tipo).

Il Giappone è invece un partner statunitense perfetto per insidiare le mire marittime cinesi e tenere sotto tiro tanto Pechino quanto la Corea del Nord di Kim con l’adozione di nuovi missili a lungo raggio. Capitolo Corea del Sud: da mesi gli Stati Uniti spiegano di voler aumentare il dispiegamento di mezzi militari avanzati nella penisola coreana, compresi aerei da combattimento e portaerei, per potenziare la formazione e la pianificazione congiunte. In tutto ciò non bisogna dimenticare i Thaad, con l’unità di difesa missilistica Terminal High-Altitude Area Defense che dovrebbe essere installata da parte delle forze armate statunitensi in quel di Seongju, a 214 chilometri a sud-est di Seoul.

Interessante anche il ruolo assunto dalle Filippine. Il segretario alla Difesa Usa, Lloyd Austin, al suo settimo viaggio in Asia durante i suoi due anni di mandato, ha annunciato qualche mese fa un accordo con Manila che dà a Washington l’accesso ad altre quattro basi militari in loco, in aggiunta alle cinque già in uso nell’ambito dell’Accordo di cooperazione rafforzata per la difesa (Edca), un’intesa stipulata tra i due Paesi nel 2014.

Chiudiamo il cerchio accendendo i riflettori sull’India, parte integrante del Quad ma anche membro del gruppo Brics insieme alla Cina, e l’Indonesia, da tutti gli analisti considerato il prossimo gigante in ascesa dell’Asia. Per quanto riguarda Nuova Delhi, Stati Uniti e India hanno cementato la loro partnership su più fronti, condividendo le medesime priorità strategiche globali. Tra gli accordi siglati dalle parti in occasione della visita del premier indiano Narendra Modi alla Casa Bianca troviamo l’acquisto, da parte del gigante asiatico, di una trentina di droni Mq-9b aggiornati, da impiegare, in parte, in operazioni ad alta quota lungo il confine himalayano (lo stesso conteso e condiviso con Pechino). Jakarta, invece, ha recentemente annunciato che avrebbe presto acquistato aerei da combattimento F-15Ex dagli Stati Uniti. Per modernizzare la propria forza aerea ma anche per potenziare le difese nazionali in vista di possibili tensioni con la Cina nel Mar Cinese Meridionale.  

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