Il mondo, quando sarà finito il conflitto in Ucraina, sarà cambiato. Forse non definitivamente, ma sicuramente per i prossimi decenni a venire gli equilibri globali non saranno più quelli che abbiamo avuto negli ultimi 30 anni.
A ben vedere il mondo era già cambiato quando il 4 febbraio 2022 il presidente russo Vladimir Putin ed il suo omologo cinese Xi Jinping si erano incontrati a suggellare il raggiungimento di un nuovo livello delle relazioni bilaterali tra i rispettivi Paesi. Nella “Relazione congiunta della Repubblica Popolare Cinese e della Federazione Russa sulle relazioni internazionali che entrano in una nuova era e sullo sviluppo sostenibile globale” si è sancita la saldatura tra il gigante demografico asiatico e quello territoriale europeo.
Sì, europeo, perché chi scrive si ostina a pensare che la Russia abbia ancora una fortissima vocazione europea nonostante anni di incomprensioni reciproche ed errori abbiano portato al dissolvimento dell’idea di un’Europa “da Lisbona a Vladivostok”. Occasione persa.
In quella dichiarazione di febbraio, siglata a 20 giorni esatti dall’invasione in Ucraina, c’è scritta, implicitamente, la nuova dichiarazione di “Guerra Fredda” che porterà a un nuovo ordine tripolare mascherato da duopolio: Russia-Cina da una parte, Usa-Europa (e Giappone, Australia, Corea del Sud) dall’altra.
Un’Europa sempre più unita proprio grazie al conflitto in atto, che ha ricompattato i ranghi di Ue e Nato, e ha fatto rompere gli indugi a due nazioni storicamente neutrali (coi dovuti distinguo) come Svezia e Finlandia che ora sono a un passo dall’entrare nell’Alleanza. Se uno dei problemi del Cremlino era il confine che condivideva coi Paesi della Nato, a breve vedrà questo quasi raddoppiarsi proprio grazie alla sempre più probabile decisione di Helsinki di entrare a farne parte, e dovrà biasimare solo il suo agire in ambito politico stavolta.
Un nuovo ordine firmato da due giganti che stringono i propri legami che non sono ancora quelli di un’alleanza in senso stretto (nessun patto di mutua difesa è stato concordato) ma che comunque ridefiniscono l’equilibrio, o per meglio dire si prefiggono di farlo, delle regole del diritto internazionale. Russia e Cina si opporranno, si legge, “all’ingerenza negli affari interni dei Paesi sovrani col pretesto della salvaguardia della democrazia e dei diritti umani”.
Mosca, applicando alla lettera lo stesso metro occidentale, ha avviato la sua “operazione militare speciale” per difendere “i diritti umani” della minoranza russofona in Ucraina da un genocidio inesistente e per “denazificare” un Paese che nazista non è mai stato. Stiamo però divagando.
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Il punto è che, nel prossimo futuro, l’equilibrio di potenza tra Ovest ed Est non sarà più lo stesso proprio per via di questa saldatura, ma soprattutto il centro nevralgico della tensione si sposterà definitivamente in Estremo Oriente. Sembra un paradosso, ma questa guerra è una piccola digressione rispetto alla trama principale che si sta sviluppando, da almeno 15 anni, nella regione del Pacifico Occidentale con generose interconnessioni nell’Oceano Indiano. Si studia solo il “Trimarium”, da queste parti, ma bisognerebbe pensare anche ai Due Oceani.
La nuova contrapposizione con l’Oriente
La guerra in atto in Ucraina è funzionale a consumare le risorse belliche della Russia, già gravate da 8 anni di sanzioni ed embargo, affinché Washington possa concentrarsi a contenere e contrastare il dragone cinese, che allunga con lentezza e costanza le sue spire sempre “più in là” nel Pacifico ma non solo: le Isole Salomone sono solo l’ultimo tassello di un mosaico in composizione che vede la presenza cinese nel Mar Cinese Meridionale, Taiwan, Kiribati, il Pakistan, Gibuti, Angola, Kenya, Tanzania e le Seychelles. Formalmente sono sempre infrastrutture civili, ma il loro utilizzo militare è sempre una possibilità, come testimoniato proprio dalla condotta cinese nelle Isole Spratly, dove dapprima Pechino ha assicurato che porti e aeroporti là costruiti avrebbero avuto esclusivamente un uso civile, poi ha cominciato a trasportare batterie di missili e a usarli come scalo per i propri bombardieri e navi da guerra.
Mentre Washington sarà impegnata a contrastare Pechino, e basterebbe guardare al budget della Difesa per l’anno fiscale 2023 per capire come la maggior parte della spesa sia destinata alla deterrenza nei confronti della Cina (citiamo a titolo di esempio gli 892 milioni di dollari destinati per la difesa antimissile di Guam, nell’arcipelago delle Marianne e i 50,3 miliardi per il Corpo dei Marines), l’Europa dovrà pensare a “tenere a bada” l’orso russo, o quello che ne rimarrà dopo il conflitto una volta che il dragone cinese lo avrà dissanguato delle sue materie prime e delle (poche) eccellenze tecnologiche (pensiamo al settore aeronautico).
In Europa, dopo varie ubriacature legate alle varie emergenze contingenti (migratorie e pandemiche soprattutto) si è tornati a pensare “alla guerra” in modo sistematico e metodico, ma con colpevole ritardo nonostante le avvisaglie ci fossero tutte: il 2014, anno in cui la Russia ha effettuato la sua operazione di Hybrid Warfare in Crimea ed è intervenuta non ufficialmente nella guerra civile in Donbass, avrebbe dovuto essere letto in maniera diversa, ma è pur sempre facile parlare col senno del poi.
Il primo passo è stato aumentare le spese per la Difesa, com’è logico, arrivando quasi ovunque a raggiungere quel 2% del Pil che era stato deciso al vertice della Nato in Galles proprio in quell’anno fatidico. Una decisione che ha intrapreso anche l’Italia e che, nella più sciagurata e classica delle nostre tradizioni quando si parla di Difesa, ha fatto nascere un dibattito politico che ha spaccato l’opinione pubblica con una maggioranza di cittadini che, a quanto pare, si dice contraria. Fa sorridere amaramente che, ancora una volta, si pensi che basti la capacità di sapersi destreggiare in mercanteggi conditi da bizantinismi per evitare di trovarci, in qualche modo nei guai: l’epoca della condotta “oscillante” è finita nel momento in cui nel Mediterraneo, oltre alle navi da guerra russe (che sono state più o meno sempre presenti), hanno preso a navigare anche quelle cinesi.
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È illusorio pensare che in un mondo multipolare, globalizzato, si possa avere margine di manovra per poter avere una propria politica di sicurezza (energetica, commerciale ecc) senza disporre di uno strumento militare adeguato che possa difenderla. Là dove anche attori regionali, proprio grazie al riarmo, diventano più competitivi e “assertivi”, non c’è spazio per chi non possiede uno strumento di deterrenza militare credibile ed efficace. Questo discorso è ancora più valido quando si tratta di potenze globali come la Cina o la Russia, che è necessario fronteggiare insieme ai nostri partner e alleati ma stando al loro stesso livello, non con strumenti numericamente scarsi o di bassa qualità, per non avere un ruolo subalterno all’interno di alleanze e partenariati.
Il vero dibattito interno dovrebbe essere sui programmi a cui destinare prioritariamente i fondi per la Difesa, e non vedere la Presidenza del Consiglio costretta a spalmare il raggiungimento del 2% al 2028, quando la maggior parte dei Paesi europei l’avrà raggiunto nel 2024, per tenere coesa una maggioranza parlamentare che, con una miopia del tutto singolare, dibatte sull’invio di armi all’Ucraina ma avvia i programmi per la nostra Difesa col contagocce; programmi che, per inciso, sono già in ritardo rispetto alle tempistiche del mondo reale.
Cambiare il ruolo dei soldati
Un discorso a parte, ma connesso con questo atteggiamento, riguarda lo stesso lessico usato per definire gli ambiti militari. Per “fare la guerra” occorre “parlare di guerra”, vale a dire che i soldati, le Forze Armate, devono essere considerate come lo strumento legittimo che ha il nostro Paese per difendersi dalle minacce esterne con la forza delle armi e per garantire la sicurezza dei suoi cittadini, una sicurezza interna che è correlata al mantenimento della stabilità e degli interessi nazionali in diverse aree geografiche del mondo.
Il soldato non deve più avere il ruolo preponderante di operatore di pace, di sorvegliante delle nostre strade o di operatore di protezione civile: deve essere pronto al combattimento in un teatro convenzionale e non-convenzionale dove le minacce sono multiformi, multidimensionali e di tipo simmetrico o asimmetrico.
Ha fatto discutere a livello politico e pubblico la circolare dello Stato Maggiore dell’Esercito, emessa lo scorso 9 marzo, riguardante la preparazione al “warfighting”. Ci si è chiesto, con sconcerto, perché l’Esercito si stesse preparando “alla guerra”. Il vero problema è stato proprio il chiederselo: a cos’altro dovrebbe servire un Esercito, una Forza Armata qualsiasi, se non a combattere al meglio una guerra? Avrebbe dovuto stupire, in un Paese normale, che si fosse resa necessaria quella circolare ed il suo contenuto, che ha mostrato tutte le carenze di più di 30 anni di tagli alla Difesa e della poca lungimiranza della classe politica che ha retto questo Paese. Eppure, come abbiamo già detto, i segnali ci sono sempre stati, ma forse si era più impegnati a preparare il terreno delle prossime elezioni invece di mettere le basi di una strategia di sicurezza stabile e di lungo periodo. Siamo come un nocchiero che naviga senza bussola e mappa, nella tempesta, mentre altri Paesi usano il Gps avendo politiche di lungo e lunghissimo termine.