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La decisione del Regno Unito di uscire dall’Unione Europea ha permesso a Londra di rompere gli indugi e di (ri)proporsi come potenza globale. A marzo 2021 il documento edito dal governo, Global Britain in a Competitive Age, ha delineato la strategia inglese per ampliare e approfondire la sua presenza in alcuni settori chiave del globo, con un’attenzione particolare all’Indo-Pacifico.

L’ambito prettamente militare, inteso come qualità e quantità di mezzi e numero di uomini, è quindi centrale affinché il Regno Unito sia in grado effettivamente di mettere in atto questa strategia, risulta quindi interessante analizzare a grandi linee quelle che sono la situazione attuale e le prospettive future della Difesa britannica.

A tal proposito ci viene in aiuto un rapporto dell’Iiss (International Institute for Strategic Studies), edito a fine ottobre, in cui si mettono in evidenza tutte le luci (poche) e le ombre (tante) del nuovo piano britannico.

Global Britain in a Competitive Age

Verso la fine del decennio precedente, il National Audit Office di Londra giudicava “unaffordable” (proibitivo) il piano di equipaggiamento del Ministero della Difesa. Pertanto molto analisti prospettavano una drastica riduzione delle capacità principali delle forze armate britanniche per non sforare il tetto del bilancio. A novembre 2020, però, il premier Boris Johnson ha annunciato un aumento delle spese per la Difesa di 16,5 miliardi di sterline (21,1 miliardi di dollari) da spalmare su quattro anni. Per dare un termine di paragone, il totale del budget inglese per questo settore, nel 2020, era pari a 62,1 miliardi di dollari. Marzo 2021, come accennato, rappresenta il punto di svolta della politica estera britannica grazie al già citato documento redatto dal governo, che viene accompagnato dal Defence in a Competitive Age, che stabilisce i piani per la modernizzazione, ristrutturazione e soprattutto definisce le dismissioni di personale e vecchi mezzi in carico alle forze armate (Royal Air Force ed esercito in particolare).

Il contesto mondiale analizzato è quello che ben conosciamo: Cina, Russia e Iran vengono indicate come le principali minacce alla sicurezza globale e, quindi, per il Regno Unito che deve rispondere tramite un approccio più proattivo volto a ridisegnare l’ordine internazionale.

Londra dovrà contenere e rispondere alle minacce ibride, sempre più articolate e diffuse, integrando l’azione delle sue forze armate con quella di altre agenzie governative. Si afferma che per essere in grado di avere una proiezione globale in grado di realizzare gli scopi britannici, il Regno Unito dovrà restare legato all’area “Euro-Atlantica” e Nato, pur continuando a guardare all’Unione europea che per la questione della sicurezza resta un partner “inequivocabile”.

La Russia resta la “più acuta e diretta minaccia” per Londra, che continuerà pertanto a mantenere dispiegate le sue forze in Estonia e Polonia nel quadro di difesa collettiva della Nato. La cooperazione con l’Alleanza e con l’Ue per contenere la minaccia russa resta quindi centrale, e si raccomanda di rafforzare i legami con la Germania, la Francia e altri membri “nordici” dei due enti (Danimarca, Paesi Baltici, Finlandia, Svezia, Islanda, Olanda e Norvegia).

Il Regno Unito, però, non intende affatto né troncare né ridimensionare il suo “cordone ombelicale” atlantico che lo lega agli Stati Uniti: viene infatti detto che Washington è un “alleato indispensabile” e un partner primario per le questioni di sicurezza internazionale e che la cooperazione in materia di difesa è la “più profonda, avanzata e articolata” che si possa avere tra due singole nazioni. Del resto, a metà di quest’anno che si sta per concludere, Londra e Washington hanno rilanciato ufficialmente la loro stretta alleanza siglando una nuova Carta Atlantica.

Se la Russia resta il nemico chiaro e definito, la Cina viene percepita più come un competitor: si afferma infatti che con Pechino è possibile trovare punti di accordo, ad esempio su clima, commercio e investimenti, così come punti di scontro, come sulla ridefinizione unilaterale e assertiva delle regole internazionali in atto in Estremo Oriente, motivo per il quale Londra prevede di avere una presenza più “persistente” nel settore Indo-Pacifico.

Più fronti da gestire in un periodo di tagli

In generale più truppe britanniche saranno chiamate a essere più presenti in diverse zone del globo, sia in ambito Nato sia in modo indipendente: a tale scopo Londra prevede di ingrandire alcune sue basi oltremare come quelle presenti a Cipro, Gibilterra, in Germania, Oman, Kenya e Singapore.

Il governo inglese prevede di fare sostanziosi investimenti in nuovi programmi, sia in ambito navale sia aeronautico (pensiamo al nuovo caccia Tempest), oltre che dotarsi di un nuovo network di intelligence, sorveglianza e ricognizione satellitare da affiancare all’acquisizione di nuove capacità in ambito di intelligenza artificiale e sistemi robotici autonomi. Senza dimenticare l’esigenza, sentita fortemente per la prima volta dopo decenni, di aumentare il tetto delle testate nucleari a disposizione. Sulla carta sembra tutto molto semplice, ma la realtà è leggermente diversa.

In ambito navale esiste una contraddizione tra la volontà di essere “la principale potenza marittima in Europa” e le dismissioni di vecchie unità, che verranno sostituite da nuove secondo un programma non meglio definito quanto a numeri e tempistiche. Quello che è sicuro è che, nel breve periodo, la Royal Navy vedrà una contrazione della sua flotta, andando quindi a mettere in crisi la capacità di essere presente sui mari come si vorrebbe, e soprattutto logorando uomini e mezzi. Il piano dell’Ammiragliato, comunque, prevede di mettere in servizio 24 nuove unità entro la metà del prossimo decennio.

Vale la pena di far notare, nel quadro della Global Britain, la formazione di due nuovi Littoral Response Groups per le forze anfibie, uno dei quali sarà di stanza nell’Indo-Pacifico mentre l’altro in Europa. Confermate le due portaerei classe Queen Elizabeth, che necessariamente avranno bisogno di più caccia per poter operare: pertanto la flotta di F-35B sarà aumentata a circa 60/80 esemplari (pur sempre meno dei 138 originariamente previsti) con la possibilità di rivederne il numero a ribasso qualora si dovesse seriamente optare su un velivolo unmanned da affiancare la caccia di nuova generazione.

Questo ci permette di passare al settore aeronautico dove, insieme a quello delle forze terrestri, ci saranno i tagli più consistenti (e problematici). La Royal Air Force, che vedrà i primi esemplari del caccia Tempest entrare in servizio non prima del 2035/2040, ritirerà entro i prossimi 10 anni numerosi modelli di velivoli tra cui 24 caccia Typhoon più anziani, 14 C-130J Hercules (che saranno sostituiti dai molto dubbi A400 Atlas), infine tutta la linea di E-3D da early warning (sostituiti a partire dal 2023 da soli tre E-7 Wedgetail).

L’esercito vedrà sparire tutta la la linea di vecchi elicotteri Puma entro il 2025, senza sapere ancora quale sarà il sostituto, mentre otto dei più vecchi Ch-47 Chinook andranno in pensione. Le forze terresti, in confronto, saranno quelle che vedranno i tagli maggiori e pertanto maggiori necessità di iniezione di fondi. La forza complessiva sarà ridotta da 82mila a 72500 uomini entro il 2025: un taglio che viene giudicato non influente sulle capacità complessive in quanto l’esercito ha operato al di sotto del numero prefissato di personale per anni. L’Ifv (Infantry Fighting Vehicle) Warrior sarà ritirato e non si prevede un suo sostituto, pertanto, apparentemente, il Royal Army vedrà perdere la possibilità di avere un mezzo corazzato armato per la fanteria, che, invece, dovrà usare il Boxer (ruotato).

L’esercito punterà quindi sulle capacità “deep battle” ovvero ingaggiare bersagli a distanza maggiore e con più grande precisione: una nuova brigata “Deep Recce Strike” verrà quindi formata a tal scopo che si affiancherà anche alla nuova “Security Force Assitance”, sempre organizzata su una brigata. Da segnalare anche che i due terzi degli Mbt (Main Battle Tank) tipo Challenger verranno modernizzati. Se il piano resterà questo, quasi sicuramente il Royal Army vedrà ridurre la sua capacità di close-combat, soprattutto in ambiente urbano. Londra quindi sembra andare in senso contrario rispetto ad altri membri della Nato, dotandosi di unità più leggere invece di formazioni pesanti e più “convenzionali”, come da tendenza cominciata con il putsch russo in Crimea nel 2014.

L’Ue non è affidabile

Il rischio di questa politica, per i britannici, è di vedere un aumento di costi per nuovi programmi a cui corrisponderà un gap generazionale dato dalla prematura dismissione di sistemi ritenuti obsoleti rispetto alle tempistiche di ingresso in servizio di quelli nuovi: in altre parole c’è il rischio che troppo sia stato “dato via”. Nonostante le nuove ambizioni “globali” che guardano all’Indo-Pacifico, il Regno Unito non ha ancora ben definito la relativa importanza delle varie missioni militari, dei ruoli e dei compiti delle sue forze armate, con la Royal Navy che sarà sicuramente chiamata a sostenere il peso maggiore di questa politica in una condizione transitoria: due sole unità portaerei, ad esempio, non sono sufficienti per fungere da deterrente su due fronti, per una semplice e banale questione di rotazione.

Come nota finale vale la pena riportare come il precipitoso ritiro statunitense dall’Afghanistan, con conseguente “frattura” tra gli alleati, abbia messo in evidenza la troppa dipendenza delle forze armate britanniche dal sistema logistico Usa, ma nonostante questo Londra non diminuirà la sua diffidenza verso l’Unione Europea, che viene vista ancora come troppo disunita dal punto di vista della sua politica estera.





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