Accordo dopo accordo, tassello dopo tassello, hub dopo hub, la Cina sembra decisa a stabilire una rete militare globale insieme a quella economica già prevista dalla Nuova via della seta. Parola dei funzionari dell’intelligence statunitense: sempre impegnati a osservare e monitorare la lenta ma regolare espansione di Pechino, prossima al completamento dei lavori nella base navale di Ream in Cambogia.

Considerata o meglio sospettata d’essere il primo avamposto militare d’oltremare nella regione dell’Indo-Pacifico, secondo i funzionari statunitensi questa ulteriore mossa rappresenterebbe l’incombere di “un’importante evoluzione nella strategia di difesa regionale di Pechino“. Ragione per cui Washington non può non esprimere preoccupazione sui canali convenzionali che di norma “allertano” l’opinione pubblica e i partner internazionali.

“Oltre a facilitare l’avventurismo militare cinese nel Mar Cinese Meridionale, la nuova base potrebbe fornire all’Esercito popolare di liberazione un punto di appoggio per monitorare e influenzare rotte marittime vitali come lo Stretto di Malacca, attraverso il quale si stima che fluisca il 40% del commercio mondiale”, riporta un articolo d’opinione pubblicato New York Times. Che pone così l’attenzione sulla nuova strategia adottata da Pechino per sfidare – ed aggiungeremmo emulare – il potenziale militare americano che dal termine del secondo conflitto mondiale ha aumentato la sua presenza nel globo, con una particolare attenzione all’area del Pacifico. Contesto che ben conosceva dopo quattro anni di guerra combattuta con il Giappone, oggi prezioso alleato nella regione.

Secondo i funzionari americani, l’espansione della missione militare cinese si starebbe incentrando sulla creazione di quelli che vengono definiti “punti forti strategici”. Punti che seguono le “principali rotte commerciali, energetiche e di risorse” percorse dalla Cina che non è più concentrata sui confini ma guarda oltre il proprio orizzonte.

Tali rotte passano attraverso lo Stretto di Malacca (acque che separano l’isola di Sumatra dalla costa occidentale della penisola malese, ndr) per proseguire nell’Oceano Indiano e giungere nel Golfo di Aden, porta d’accesso al Mar Rosso (dunque al Mediterraneo via Suez, ndr) di fronte allo Yemen e alla Somalia: punto d’arrivo per “sbarcare” nell’instabile continente Africano. Questi punti forti sono pensati per “fornire supporto alle operazioni militari all’estero” ed “esercitare influenza politica e militare” all’estero, ha ammesso chiaramente Pechino. Basta avere una carta geografica davanti per aver chiaro il concetto e i possibili sviluppi nel campo delle ambizioni.

Strategie “nuove” per antiche ambizioni

A confermare le intenzioni della Cina basterebbero le immagini reperibili in open source, che suggeriscono come Pechino stia gettando le basi per stabilire questa rete parallela ai principali sbocchi commerciali. Puntando al Gibuti nell’Africa orientale, alla Guinea Equatoriale sulla costa atlantica africana, ed estendendo il sua influenza fino alle Isole Salomone nel Pacifico meridionale. Tra i futuri hub desiderati e attenzionati dai funzionari del Pentagono, sarebbe stato nominato anche il Gabon: stato africano fresco di golpe militare con cui la Cina ha sviluppato legami militari negli ultimi anni. Un tipo di accordi che difficilmente si dissolvono con un rovesciamento di governo.

Secondo l’intelligence una base con asset militari cinesi in Gabon e nella vicina Guinea Equatoriale “potrebbe consentire alla Cina di proiettarsi nell’Oceano Atlantico” per la prima volta nella sua storia. Lasciandoci assistere al senso contrario delle rotte e le ambizioni tracciate dai grandi imperi coloniali dell’XIX secolo.

Sfruttando le basi gettnte nel protendersi della Belt and Road Initiative, che punta a stabilire infrastrutture “multiuso” nei porti di tutto il mondo – il famoso “filo di perle” – con l’obiettivo di “espandere” il potere economico e politico cinese, Pechino potrebbe adattare i suoi progetti commerciali ai programmi militari; che possono fungere non solo da garanzia di sicurezza nel caso di instabilità locale, ma anche da contrappeso per quelli che sono da sempre i progetti di una potenza in ascesa: la proiezione nel intero globo.

Ciò consentirebbe a Pechino in futuro, come ha consentito a Washington e Londra nel passato e nel presente, di avere alla propria portata obiettivi militari e di alto valore in genere da colpire con maggiore facilità ed efficienza nel caso remoto che un conflitto che implichi la Repubblica Popolare Cinese deflagrasse distante dai confini del Dragone. Non limitando la nostra attenzione all’annoso affare di Taiwan.

Pericolo per l’equilibrio mondiale o cruccio dei vecchi imperi?

La nuova espansione militare di Pechino potrebbe incidere sullo status quo mondiale già estremamente delicato, intaccando gli interessi o la “tranquillità” degli Stati Uniti e dei suoi alleati in angoli mondo dove le carte sul tavolo erano già state date, rimanendo le stesse da lungo tempo.

Il timore principale del Pentagono consiste nella concomitante vicinanza di vecchi hub americani, o della Nato in generale, e nuove infrastrutture cinesi multiuso che – come nel caso del Gibuti – potrebbero tramutarsi in “basi fortemente fortificate”. Secondo la piattaforma di intelligence Stratfor, l’infrastruttura cinese comprenderebbe fino a 70.000 metri quadrati di bunker sotterranei che potrebbero tranquillamente essere adibiti a ritiro nascosto di una vasta gamma di attrezzature militari, dalle artiglierie, alle munizioni convenzionali alle componenti di satelliti spia (non è specificato se palloni aerostatici o asset seri). La base, situata proprio all’imbocco del Mar Rosso, sorge non distante dalla base americana di Camp Lemonnier. L’intelligence americana sostiene che “cambiamenti simili” sarebbero in atto anche nel porto di Khalifa negli Emirati Arabi Uniti, e in prossimità di una base aerea americana nel settore.

Se tali strutture si diffondessero lungo tutta la nuova via della Seta, e comprendessero come temono gli americani, “personale” in grado di “condurre operazioni per negare, sfruttare o dirottare” i satelliti statunitensi, o peggio agenti dello spionaggio militare addestrati a condurre guerra informatica e cognitiva contro le infrastrutture americane o alleate – inclusa quella che viene descritta come “diffusione di false informazioni” attraverso le onde radio di un “avversario” per degradarne il processo decisionale – il problema si farebbe serio. Ma non ci sono dati a sufficienza per congetturare tanto.

La contromossa di contenimento americana

I “punti forti” che la Cina ha stabilito e intende stabilire nel suoi piano di schieramento globale, possono tranquillamente concedere alla stessa la “capacità di distrarre” le forze statunitensi e alleate schierate in diversi teatri operativi. Oltre ad essere per la prima volta in grado di fornire alle unità d’alto mare del Pla Navy la possibilità di rifornirsi di carburante e accedere a porti sicuri per eventuali riparazioni, soste a breve termine, scarico di materiali non comuni, e supporto logistico di ogni genere.

La strategia di contenimento degli Stati Uniti, secondo l’analista Craig Singleton è basata su una combinazione e di attesa e disfacimenti: “aspettare che gli accordi di accesso cinese fossero finalizzati o quasi completati negli Emirati Arabi Uniti, nella Guinea Equatoriale e nelle Isole Salomone prima di inviare delegazioni di alto livello per informare quei governi sui rischi percepiti nell’ospitare un governo cinese” spiega l’autore del lungo articolo dell’analisi pubblicata dal Ny Times. Possiamo citare come esempio già trattato il caso di Israele dopo la visita dell’allora segretario di Stato Mike Pompeo.

È evidente come la profondità strategica delle mosse cinesi costringano gli Stati Uniti ad elaborare una strategia più attiva e meno passiva per osteggiare preventivamente l’espansionismo di Pechino. Concentrandosi su un piano di contrattazione/persuasione con i governi ospitanti che dovrebbero – in cambio di una contropartita – rifiutare di ospitare strutture militari cinesi. Smettendo di limitarsi a disfare quando possibile gli sforzi del Dragone che, dal canto suo, potrebbe imparare dai proprio fallimenti ed elaborare piani/offerte più convincenti per quelle realtà ospitanti che non devono nulla all’Alleanza Atlantica e agli Stati Uniti, e possono tranquillamente permettersi di scommettere sulle nuove ambizioni imperialiste a dispetto delle vecchie.

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