I semiconduttori hanno consentito a Taiwan di ritagliarsi un ruolo primario nello scacchiere geopolitico mondiale. Taipei produce il 60% di tutti i semiconduttori mondiali, il 90% dei piĂą avanzati. Nel 2017, le tre principali aziende taiwanesi, Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. (Tsmc), United Microelectronics Corp (Umc) e Powerchip Technology Co), hanno realizzato, da sole, il 70% della fabbricazione globale dei circuiti integrati. Numeri imponenti, che non possono non essere esclusi dalle tensioni che coinvolgono l’isola, la Cina, e gli Stati Uniti. Anche perchĂ©, qualora dovesse scoppiare una guerra tra i tre attori citati, a quel punto il settore andrebbe in tilt, con enormi ripercussioni per tutta la catena di approvvigionamento mondiale.

Non è un caso che il premier giapponese Fumio Kishida, in occasione del G7 di Hiroshima, abbia invitato i grandi capi delle aziende mondiali dei semiconduttori – da Intel a Tsmc, da Ibm a Samsung – a investire in nuove strutture di produzione e ricerca in Giappone, così da blindare le supply chain dei chip. Troppo rischioso, ripetono diversi analisti, lasciare il cuore di quest’industria in un luogo perennemente sotto scacco, quale è Taiwan.

La domanda da un milione di dollari è sempre la stessa ormai da mesi: che cosa potrebbe accadere ai semiconduttori, nel caso in cui la Cina dovesse lanciare un’offensiva militare nel tentativo di riannettere de facto quella che Pechino ritiene essere una “provincia ribelle”? Le sensazioni non sono affatto buone. Ma basterebbe molto meno di un eventuale danneggiamento delle aziende strategiche taiwanesi – ad esempio un blocco commerciale attuato da Pechino attorno all’isola – per far andare in tilt il mondo intero, privandolo dei chip necessari al sostentamento della vita quotidiana.

Al momento, Taipei si affida ad un salvagente non da poco. La Cina, come ha sottolineato lo Stimson Center, può produrre solo il 6% dei chip necessari per alimentare la propria industria dell’elettronica di consumo. Il Dragone si affida quindi a fornitori esterni, in particolare alla Tsmc per coprire il 70% del deficit. Allo stesso tempo, l’azienda taiwanese produce, su contratto, anche il 92% dei chip piĂą avanzati progettati dalle societĂ  di semiconduttori statunitensi.



Il futuro dei semiconduttori di Taiwan

Proprio a causa delle scintille geopolitiche tra Usa e Cina, Tsmc – la piĂą grande fonderia di semiconduttori al mondo – ha iniziato a guardarsi intorno. L’azienda è in procinto di aprire due grandi stabilimenti negli Stati Uniti, in Arizona, per un valore di oltre 40 miliardi di dollari. Ha preso in considerazione l’idea di costruire un secondo impianto in Giappone e sta valutando la possibilitĂ  di inaugurarne un primo in Europa.

Lo scorso gennaio Nikkei Asian Review scriveva che la societĂ  era in trattative avanzate con fornitori chiave per la creazione del suo primo potenziale impianto europeo nella cittĂ  tedesca di Dresda, in una mossa che consentirebbe al colosso di Taipei di capitalizzare la domanda proveniente dall’industria dell’auto regionale e mondiale. La spinta all’espansione di Tsmc è dunque dettata da motivazioni economiche – l’azienda prevede che l’industria globale dei chip, esclusi i chip di memoria, diminuirĂ  del 4% per tutto il 2023 – ma anche strategiche.

Da questo punto di vista, due sono le ombre che minacciano i semiconduttori taiwanesi. A fronte di un’ipotetica invasione cinese, da un lato Pechino potrebbe prendere il controllo dei chip di Taipei ed utilizzare l’intero settore nei modi che desidera – anche limitando o stoppando le esportazioni verso Paesi rivali – mentre dall’altro, gli Stati Uniti potrebbero paradossalmente pensare di distruggere le fabbriche di semiconduttori taiwanesi, pur di non farle finire nelle mani del Dragone. In entrambi i casi, l’assicurazione sulla vita di Taiwan, che coincide con l’industria dei chip, cesserebbe di esistere.

Terra bruciata

La possibile distruzione delle aziende taiwanesi dei chip da parte degli Usa è altamente improbabile ma plausibile. L’ipotesi è stata rilanciata nelle ultime ore da svariati media, ma non è certo una novitĂ . L’idea originaria deriva da un’affermazione di Robert O’Brien, consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti durante la presidenza di Donald Trump.

“Gli Stati Uniti e i loro alleati non lasceranno mai che quelle fabbriche cadano nelle mani dei cinesi”, dichiarava O’Brien, lo scorso marzo, al Global Security Forum organizzato dal Soufan Center di Doha, in Qatar, paragonando la possibile distruzione delle fabbriche da parte di Washington a quando, nella Seconda guerra mondiale, Winston Churchill ordinò la distruzione della flotta navale francese dopo che la Francia si arrese alla Germania.

Insomma, per l’ex alto funzionario Usa, se la Cina dovesse prendere il controllo delle aziende strategiche di Taiwan, allora Pechino si ritroverebbe a guidare una sorta di nuova “Opec dei chip di silicio“, arrivando a controllare l’economia mondiale.

In un secondo momento, O’Brien ha aggiustato il tiro, spiegando che chiunque affermi che gli Stati Uniti rappresentano una minaccia per Taiwan non fa altro che diffondere disinformazione. Le sue parole, infatti, avevano subito spinto Chen Ming Tong, il direttore generale dell’Ufficio per la sicurezza nazionale di Taiwan, ad una pronta risposta: non sarebbe necessario per gli Stati Uniti distruggere le fabbriche taiwanesi di semiconduttori, in caso di invasione, perchĂ© il sistema è giĂ  profondamente integrato nella catena di approvvigionamento globale, e dunque la produzione può essere interrotta dagli Usa e da altri Paesi senza radere al suolo le strutture.



Lo “scudo di silicio” in bilico

In ogni caso, giĂ  nel 2021 lo Us Army War College ragionava sull’ipotesi della terra bruciata. “Per iniziare, gli Stati Uniti e Taiwan dovrebbero elaborare piani per una strategia mirata di terra bruciata che renderebbe Taiwan non solo poco attraente se dovesse essere presa con la forza, ma decisamente costosa da mantenere”, si legge nell’articolo in questione. E ancora: “Questo potrebbe essere fatto in modo piĂą efficace minacciando di distruggere le strutture appartenenti alla Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, il piĂą importante produttore di chip al mondo e il piĂą importante fornitore della Cina. Samsung con sede in Corea del Sud (un alleato degli Stati Uniti) è l’unica alternativa”.

In tal caso, finirebbe in frantumi il cosiddetto “scudo di silicio” taiwanese: secondo questa lettura, la dipendenza della Cina dai semiconduttori di Taiwan non sarebbe nient’altro che l’ancora di salvezza dell’isola. Detto altrimenti, e grazie al citato scudo di silicio, finchĂ© Pechino sarĂ  costretta ad affidarsi alle aziende taiwanesi sarĂ  difficile, se non impossibile, pensare che i cinesi possano scatenare una guerra per riconquistare la provincia ribelle.

Ma Tsmc e i “suoi fratelli” sono davvero deterrenti sufficienti contro una qualsiasi e ipotetica invasione cinese? Questo era senz’altro vero negli anni Novanta. Oggi, come ha spiegato InsideOver, la situazione è cambiata, ed è cambiata precisamente dall’inizio della guerra commerciale tra Usa e Cina. Da quel momento in poi, Pechino ha cercato in tutti i modi di evitare punti di strozzatura critici.

Nell’agosto del 2022, il principale produttore di chip cinese, Semiconductor Manufacturing International Corp (Smic), ad esempio, è riuscito a compiere un importante progresso tecnologico, iniziando ad utilizzare il processo a 7 nanometri per produrre i semiconduttori, e raggiungendo così una presunta maturità tecnologica. Sempre alla fine della scorsa estate Smic informava che i processi per realizzare i semiconduttori a 14 nm erano entrati nella fase di produzione di massa. Ebbene, con una produzione autoctona di chip a 14 nm, la Cina sarebbe in grado di alimentare i chip della propria industria di consumo anche nel caso in cui l’accesso a chip più avanzati – leggi: chip taiwanesi – dovesse essere completamente interrotto.  

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