Risolvere le numerose controversie nel Mar Cinese Meridionale, in primis la questione taiwanese. Sfondare le cosiddette tre “catene di isole”, ovvero l’insieme delle isole dislocate nell’Indo-Pacifico e coincidenti con gli alleati di Washington, per proiettare la propria forza marittima tanto verso l’Oceano Indiano quanto in direzione dell’Oceano Pacifico. E poi mantenere alta la pressione sull’India lungo il confine himalayano, tamponare la frontiera con la Corea del Nord in caso di crisi. Infine, rafforzare la presenza nell’estremo nord e nelle regioni occidentali; nel primo caso per bilanciare la presenza russa in Asia, nel secondo per scongiurare il radicamento di organizzazioni terroristiche.
L’Esercito popolare di liberazione cinese (Pla), nome ufficiale per indicare le forze armate della Cina, è il più numeroso al mondo. È infatti formato da 2 milioni di soldati attivi e circa mezzo milione di riservisti. Numeri mastodontici, che tuttavia non bastano, da soli, ad inquadrare il braccio armato di Pechino. La quantità, infatti, non è sinonimo di qualità.

È soltanto negli ultimi decenni, in seguito alle profonde riorganizzazioni andate in scena a partire dagli anni ’80, che l’esercito cinese è progressivamente trasformato in un esercito moderno, equipaggiato con tecnologie di ultima generazione, soprattutto, funzionale alle nuove sfide geopolitiche del Paese. La grande svolta si è concretizzata con la salita al potere di Xi Jinping, quando Pechino ha modernizzato i reparti militari, riducendo le forze terrestri e rinforzando i settori specializzati come aviazione e marina, modificato uffici e, più in generale, adottando una gestione più snella nel rapporto tra i vari settori.
Giusto per fare un esempio, mentre in passato i comandanti dell’esercito e della marina dovevano rivolgersi, per i loro rapporti, ai rispettivi uffici di servizio, ognuno situato in una delle sette vecchie regioni militari, dal 2016 Xi ha introdotto cinque teatri congiunti, ciascuno sotto un unico comandante. Insomma, se fino a qualche anno fa tutto o quasi ruotava attorno alle forze di terra, in tempi recenti marina e aeronautica si sono ritagliate importanti spazi di manovra.
I cinque teatri militari
Il braccio armato del Partito Comunista Cinese (Pcc), come detto, è stato ridimensionato, non solo dal punto di vista numerico ma anche nell’intera struttura di comando.
Da un punto di vista organizzativo, il territorio della Cina è suddiviso in cinque differenti teatri militari, ovvero aree che coincidono con le “zone calde” in cui, da un momento all’altro, il Paese potrebbe fronteggiare una guerra o una crisi.
Il Comando orientale ha sede a Nanchino ed è pronto in caso di scontro armato con Taiwan e Giappone. Quello occidentale, nonché il più grande per estensione territoriale, è di base a Chengdu e il suo compito consiste nel contrastare l’India e il terrorismo nello Xinjiang.
Troviamo poi il Comando meridionale, situato a Guangzhou, che monitora la situazione nel Mar Cinese Meridionale e nel Sudest Asiatico. Il Comando settentrionale, a Shenyang, ha un occhio di riguardo sulla penisola coreana e sulla Russia. Infine, quello centrale, situato a Pechino, amministra la capitale, cuore del colosso cinese.
Il rafforzamento dell’esercito
“Dobbiamo trasformare l’Esercito popolare di liberazione in una Grande Muraglia d’acciaio, capace di salvaguardare efficacemente la sovranità nazionale, la sicurezza e gli interessi di sviluppo”, ha dichiarato Xi, lo scorso marzo, appena confermato per la terza consecutiva presidente della Cina. In quell’occasione, per riferirsi alle forze armate il presidente cinese ha utilizzato una formula forte ma non inedita: quella della “Grande Muraglia d’acciaio” costruita “con il sangue e la carne di 1,4 miliardi di cinesi”.
Il governo, intanto, ha stabilito il nuovo tasso di crescita delle spese militari: +7,2%, con il risultato che, nel 2023, la spesa militare di Pechino crescerà al ritmo più veloce degli ultimi quattro anni e supererà altre categorie di spesa – come il +5,7% della spesa pubblica generale – evidenziando, la riponderazione del Dragone verso la sicurezza rispetto allo sviluppo. Il budget militare dichiarato ammonta ufficialmente a circa 225 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra quattro volte inferiore rispetto a quella registrata dagli Usa, anche se, nell’ultimo decennio, la spesa per la Difesa della Cina è aumentata di circa il +10% ogni anno, con il 2014 che ha visto l’aumento più elevato, pari al +12,2%. Tra il 2009 e il 2018, le suddette spese sono aumentate addirittura del +84%.
In ogni caso, la cura di Xi ha archiviato la vecchia struttura sovietica, tanto che adesso il Pla ricorda per certi aspetti l’esercito americano. Anche perché è quello, di fatto, il modello imitato dai cinesi. Altre novità rilevanti: la parola d’ordine in seno alle riforme è “collaborazione”. Significa che vari reparti devono lavorare in modo coordinato ed efficiente. Inoltre le forze terrestri hanno subito un taglio netto, perdendo circa 300.000 uomini dal 2015, mentre la marina ha triplicato i suoi effettivi.
Interessi e obiettivi
L’obiettivo principale del Pla è ovviamente difendere la Cina e i suoi interessi. Nel 2015 abbiamo però avuto un’importante svolta. La cosiddetta Power Projection del Dragone è passata dal presidiare il territorio nazionale, le istituzioni e l’area più o meno coincidente con il Mar della Cina, al guardare oltre i confini nazionali.
Il motivo di una simile svolta è presto detto: gli interessi politico-economici del governo cinese non sono più localizzati soltanto in un’area circoscritta, o nel continente asiatico, bensì nell’intero globo. Il Dragone ha in sostanza dovuto addestrare il proprio esercito a nuove mansioni, nel tentativo di farsi trovare pronto qualora dovessero scoppiare crisi politiche in aree strategiche che possano mettere in pericolo i propri interessi. È così che è andato in scena un tentativo di globalizzare il Pla, per adesso con la costruzione, risalente al 2017, della base militare di Gibuti, fin qui l’unica oltre la Muraglia. Il tutto, ci tiene a sottolineare il governo cinese, seguendo il principio di non interferenza negli affari interni di altri Stati.
Per quanto riguarda le basi del Pla, dai Pentagon Leaks è emersa una indiscrezione sulla Cina, e in particolare sulla possibile ragnatela di basi militari che il gigante asiatico avrebbe intenzione di realizzare in giro per il mondo. Secondo quanto riportato da un recente documento, la Cina starebbe (il condizionale è d’obbligo) perseguendo un’ambiziosa strategia militare globale che prevede, da qui al 2030, la creazione di almeno cinque basi all’estero e dieci siti di supporto logistico. Nel dettaglio, il Pla intenderebbe sfruttare il Progetto 141 – questo il nome dell’iniziativa – per stabilire una rete mondiale di avamposti militari e navali in Guinea Equatoriale, Gibuti, Emirati Arabi Uniti, Cambogia e Mozambico; due di questi sarebbero attualmente in costruzione, altrettanti si troverebbero in attesa di approvazione e uno soltanto (quello di Gibuti) è operativo.
Certo, non mancano nodi da sciogliere per il futuro del Pla. I cinesi, ad esempio, non combattono una guerra dal 1979 in Vietnam, mentre gli americani sono ben più “allenati” dei colleghi asiatici. Come se non bastasse, il modello che il Dragone sta emulando, cioè quello Usa, risponde a diversi criteri di gestione. La struttura militare statunitense, infatti, è basata su una strenua collaborazione e apertura, ovvero due aspetti che collidono con il verticismo asiatico. C’è infine da considerare un altro aspetto che potrebbe ostacolare la strada ai sogni di gloria di Xi Jinping. Le riforme del presidente hanno tolto di mezzo molti soldati, senza considerare le purghe e gli arresti per corruzione. Sotto le ceneri della riorganizzazione c’è chi potrebbe covare risentimento e vendetta, mettendo a rischio l’intera architettura militare.