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Gli Stati Uniti notoriamente sono in ritardo nello sviluppo di sistemi ipersonici nonostante siano stati pionieri in questo campo di ricerca aerospaziale sin dai tempi dell’X-15. Nei primi anni del 2000, il vettore X-51 “Waverider”, progettato da Boeing per sperimentare la propulsione scramjet, non ha avuto ulteriori sviluppi e i programmi ipersonici si sono sostanzialmente arenati sino alla metà degli anni 2010, quando sono stati riesumati sulla scorta dei progressi fatti in questo settore dalla Russia e dalla Cina, che a oggi rappresentano gli unici due Paesi al mondo ad avere messo in servizio sistemi missilistici ipersonici.

La corsa statunitense all’ipersonico, attualmente, vede esercito, marina e aeronautica sviluppare propri vettori di tipo diverso – anche in collaborazione – con risultati a volte scoraggianti: recentemente la Us Air Force, sulla scorta degli insuccessi accumulati, ha deciso di non sviluppare ulteriormente l’Agm-183A (o Arrw) pur proseguendo col programma di test già messi a bilancio per accumulare esperienze. In questo momento, la Us Navy sta sviluppando il Cps (Conventional Prompt Strike) in collaborazione con l’esercito e l’Oasuw Inc.2 (Offensive Anti-Surface Warfare Increment 2), mentre l’Us Army sta procedendo col Lrhw, un Glbm (Ground Launched Ballistic Missile) a medio raggio e l’Us Air Force l’Hacm (Hypersonic Attack Cruise Missile), avendo aperto anche, grazie all’Aukus, alla collaborazione con l’Australia per lo Scifire. Altri tre programmi sono in studio dal Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency) e uno dal Office of the Under Secretary of Defense, Research and Engineering (Ousd R&E).

Le difficoltà nello sviluppo di sistemi ipersonici incontrate da parte statunitense sono ascrivibili a diversi fattori, come analizzato dal rapporto rilasciato l’11 maggio scorso dalla National Defense Industrial Association, e tra di essi spicca la fragilità della catena di approvvigionamento di metalli e altri minerali che vengono impiegati per la produzione di questi particolari strumenti bellici.

La stragrande maggioranza di questa fragilità è rappresentata da due fattori strutturali a cui si aggiunge un fattore contingente, rappresentato dal conflitto in Ucraina. La necessità di sostenere Kiev per contrastare l’invasione russa ha infatti richiesto all’industria statunitense uno sforzo, che è ancora in corso, per aumentare la produzione di sistemi come i missili guidati anticarro, i missili spalleggiabili antiaerei e altri generici sistemi e munizioni. Nella fattispecie, il Dipartimento di Stato ha recentemente pubblicato un riepilogo generale di quanto gli Usa hanno inviato in Ucraina dall’inizio del conflitto tra cui si può leggere che oltre 10mila Atgm tipo “Javelin”, oltre 1600 Manpads tipo “Stinger” e oltre 60mila altri sistemi e munizioni anticarro hanno preso la via di Kiev, insieme ad altri armamenti, munizioni ed equipaggiamenti per un totale complessivo di 36,9 miliardi di dollari.

Il nodo delle munizioni

Lo stress industriale generato dalla necessità di aumentare la produzione di quella tipologia di armamenti consegnati all’Ucraina, ha certamente influito sulla catena di approvvigionamento nazionale compresa quella del settore aerospaziale che sta mettendo a punto i sistemi ipersonici.

Questi vettori particolari infatti condividono con la normale filiera produttiva dell’industria bellica la maggior parte dei minerali e materiali. In particolare, la National Defense Industrial Association ha individuato criticità diffuse per quanto riguarda la fibra di carbonio, componente chiave di materiali resistenti al calore, i compositi “carbonio-carbonio” e a matrice ceramica, utilizzati come refrattari dai sistemi ipersonici, il tantalio, un minerale che, nella forma di carburo – una ceramica di altissima temperatura – ha applicazioni in questo settore e viene anche usato, da solo, nella manifattura di componenti elettroniche, le già note Terre Rare, tra cui la più importante è l’ittrio che è un altro componente chiave delle ceramiche refrattarie, il cobalto usato come lega nei motori dei missili, il perclorato di ammonio che è ben conosciuto nel campo missilistico in quanto usato come propellente solido per razzi, l’alluminio e il titanio, minerali diffusamente utilizzati dal settore aeronautico, il nickel usato nelle fusoliere di vettori ipersonici, il neon utilizzato nella fabbricazione di semiconduttori e perfino nelle materie plastiche che vengono usate per la costruzione di modelli.

Tra tutti, quelli più a rischio sono le Terre Rare, per cause legate al monopolio cinese nel settore, e i compositi “carbonio-carbonio” in quanto esistono solo 3 fornitori disponibili e la manifattura e distribuzione sono particolarmente costose. A seguire, il tantalio, il perclorato di ammonio, il neon e le materie plastiche.

Manca la forza lavoro

Tra le cause strutturali, il rapporto identifica anche la forza lavoro, che ha problemi di “invecchiamento” a fronte di un non efficace ricambio generazionale e una questione squisitamente legata al mercato: dato che i sistemi ipersonici per il momento non hanno diffusione, la base industriale che se ne occupa è ancora piccola per supportare uno sviluppo adeguato e in tempi brevi. Ne consegue che anche i lunghi tempi di consegna dei vettori di questo tipo, impediscono all’industria specializzata di muoversi rapidamente, e siccome gli Stati Uniti sono ancora nelle prime fasi di ricerca e sviluppo, ci sono pochi incentivi di carattere economico per l’indotto che lo invoglino a entrare in questo tipo di mercato emergente.

L’istituto autore del rapporto individua alcune soluzioni a queste problematiche strutturali, che vanno dall’espandere il partenariato con quei governi stranieri o società che possono permettere di accorciare la filiera delle Terre Rare (Australia e Canada), sino allo stringere legami con le università e le industrie di quelle nazioni che sono più avanzate in questo settore (nella fattispecie Giappone e Norvegia), senza dimenticare che l’industria e in particolare gli enti di formazione tecnica hanno bisogno di un chiaro e forte segnale da parte del governo per poter ampliare questo settore di ricerca, ad esempio sfruttando la metodologia dei contratti pluriennali in grado di rassicurare l’iniziativa privata e quindi favorendone l’afflusso di capitali. Anche le università dovrebbero fare la loro parte, con programmi di studio/formazione ad hoc in modo da selezionare personale preparato al meglio.

Risulta interessante tornare sulla questione dell’approvvigionamento delle materie prime, in quanto lo studio evidenzia che il fabbisogno di neon è stato messo a dura prova dal conflitto in Ucraina dato che il Paese detiene il 50% delle esportazioni globali e più del 90% dei semiconduttori fabbricati negli Stati Uniti sfrutta il neon ucraino prodotto da due compagnie, Ingas e Cryoin che si trovano rispettivamente nell’occupata Mariupol e a Odessa.

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