Mentre la guerra in Ucraina continua grazie alle controffensive dell’esercito ucraino che hanno ricacciato indietro i russi, rese possibili dalla fornitura di armi e munizioni da parte degli alleati di Kiev, l’Occidente è alle prese con un problema molto serio riguardante la necessità di continuare il sostegno militare all’Ucraina senza intaccare troppo le scorte di armi e munizioni a un punto tale da mettere a repentaglio la propria propria capacità bellica.
Alla Nato sembra che ci sia diffusa preoccupazione in merito a questa tematica, tanto che comincia a serpeggiare un nemmeno troppo velato malumore per le richieste insistenti del governo Zelensky, che vorrebbe più impegno da parte dell’Alleanza nella sua battaglia contro l’esercito russo.
Sembra infatti, come riferiscono fonti anonime di Foreign Policy, che gli Alleati abbiano invitato le industrie della Difesa occidentali ad aumentare la produzione, in uno sforzo volto a cercare di rimpinguare i depositi, in quanto ci si è resi conto, con quasi 20 anni di ritardo, che “i magazzini (pieni) contano”.
Sebbene le decisioni in merito agli aiuti militari all’Ucraina ricadano sui singoli membri dell’Alleanza, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha ripetutamente parlato della necessità di un’assistenza continua a Kiev, e nei giorni scorsi gli hanno fatto eco le massime cariche militari statunitensi che, riunite in una conferenza stampa al Pentagono, hanno riaffermato la volontà e la necessità di continuare a sostenere lo sforzo bellico ucraino con l’invio di armi.
A Washington, infatti, si desidera che gli alleati della Nato continuino ad aumentare le spese per la Difesa, possibilmente per acquistare materiale statunitense. La situazione, almeno negli Usa, pare più drammatica di quello che sembra: Jeb Nadaner, ex vice segretario alla Difesa per la politica industriale durante l’amministrazione Trump, ha detto a Fp che anche se non ci fosse la guerra in ucraina, le scorte statunitensi sarebbero comunque troppo basse.
Quanto riferito da Fp ve lo avevamo anticipato a settembre: il primo a lanciare l’allarme era stato Josep Borrell, alto rappresentate dell’Ue per gli affari esteri, quando a inizio di quel mese aveva affermato che “le scorte militari della maggior parte degli Stati membri sono state, non direi esaurite, ma impoverite in proporzione elevata, perché abbiamo fornito molto agli ucraini”. Successivamente gli aveva fatto eco ancora il segretario Stoltenberg, che qualche giorno dopo aveva tenuto una riunione speciale dei direttori degli uffici armamenti dell’Alleanza per discutere le modalità di riempimento dei magazzini di armi dei Paesi membri. Anche negli Stati Uniti c’era stato chi, al tempo, aveva espresso preoccupazione: Dave Des Roches, professore e membro militare senior presso la National Defense University si era detto “molto preoccupato” per il rapido esaurimento delle scorte, a meno che non cominci “una nuova produzione, che richiede mesi per andare a regime”.
Il calo degli armamenti dopo la Guerra Fredda
Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti conservavano grandi scorte di armi, terre rare e altri materiali per aumentare rapidamente la produzione se mai fosse cominciato lo scontro aperto con l’Unione Sovietica, ma terminata l’epoca della contrapposizione in blocchi, a partire dal 1990, Usa e alleati europei hanno iniziato a ridurre la produzione, e quindi il livello di immagazzinamento di armi e munizioni: il “nemico” era il terrorismo internazionale di matrice islamica, quindi non c’era bisogno di grossi quantitativi di materiale bellico perché inutile ai fini della guerra asimmetrica, che sia di counterinsurgency o counterterrorism.
La produzione si è orientata maggiormente verso prodotti ad alta tecnologia, in particolare munizionamento di precisione, velivoli di nuova generazione, proiettili di artiglieria a gittata aumentata. Il problema, come affrontato precedentemente, è che questa tipologia di armi richiede più tempo per essere prodotta rispetto a quelle della generazione precedente.
Il conflitto in Ucraina sta dimostrando, come ha ricordato qualche mese fa il generale di Squadra Aerea Luca Goretti, capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana, che la quantità ha ancora un peso rilevante nonostante i progressi raggiunti dalla tecnologia.
I livelli di produzione
Parlando di velivoli, ad esempio, gli F-35 vengono prodotti, complessivamente in tutti gli stabilimenti sparsi nel mondo, in 142 esemplari l’anno. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il caccia britannico Spitfire veniva “sfornato”, al culmine della sua produzione, in 320 esemplari al mese. Forse è un paragone un po’ forzato, ma rende l’idea di come la tecnologia richieda tempo per essere pronta all’uso.
Venendo a strumenti bellici più semplici di un caccia di quinta generazione, i missili anticarro statunitensi Javelin (o Atgm – Anti Tank Guided Missile) vengono prodotti dalla Lockheed-Martin in 2100 pezzi l’anno in condizioni normali. L’Ucraina ha affermato di consumarne 500 al giorno al culmine dell’invasione russa. Si fa presto a fare i conti. Se guardiamo ai proiettili per l’artiglieria la situazione non cambia: l’esercito ucraino ne ha consumati 7mila al giorno in quel periodo, mentre nei magazzini statunitensi, nel 2020, ne erano presenti circa 75mila. Anche qui la matematica ci dimostra che, in caso di guerra convenzionale come quella in atto in Ucraina, le scorte Usa sarebbero bastate per poco più di 10 giorni di conflitto.
La Nato quindi, in questo momento, non sarebbe in grado di sostenere il peso di un conflitto d’attrito prolungato su vasta scala, perché semplicemente i suoi magazzini si esaurirebbero nell’arco di poche settimane. Il problema è molto serio, in quanto danneggia la percezione della capacità di deterrenza convenzionale dell’Alleanza, con tutto quanto ne consegue.
Il problema della produzione di massa
Avviare la produzione di massa non è semplice, e non perché manchi il know how: le industrie della Difesa occidentali, che sono private, vogliono essere pagate in tempi stretti, ed esiste anche la questione della necessità di una gara d’appalto per l’assegnazione dei contratti, che ha tempistiche predeterminate e difficilmente accorciabili (anzi, che spesso si allungano). Il capitale privato, poi, non ragiona “con lungimiranza”, ed è restio a cominciare una produzione in massa, su richiesta di un governo, nel timore di avviare un processo che potrebbe bruscamente interrompersi qualora non ce ne fosse più la necessità.
Negli Stati Uniti si sta iniziando a ricostruire le scorte di munizioni che sono state utilizzate dagli ucraini: l’esercito Usa ha dichiarato di aver assegnato alla Lockheed-Martin più di 520 milioni di dollari tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre per ricostituire le scorte di razzi guidati utilizzati dagli Mlrs (Multiple Launch Rocket System) inviati in Ucraina.
Anche dall’altra parte della barricata la situazione non è rosea: sappiamo che Mosca si è rivolta precipitosamente all’Iran per avere alcune tipologie di Uas (Unmanned Air System) – ma anche per questioni legate alle difficoltà industriali interne causate da un prolungato regime sanzionatorio – e alla Corea del Nord per avere munizioni, senza citare la riattivazione dei vetusti Mbt (Main Battle Tank) tipo T-62 per sopperire alle perdite e alla lentezza della produzione di nuovi carri, messa a dura prova dalla difficoltà di reperimento di componentistiche legate all’industria ad alta tecnologia.