Peter Rudolf de Vries è un nome che in Italia risulterà sconosciuto ai più, ma nei Paesi Bassi è, o meglio era, sinonimo di giornalismo investigativo d’eccellenza. De Vries, classe 1956, aveva dedicato la vita ad indagare sulla malavita nederlandese. Vita che, alla fine, sembra che gli sia stata tolta proprio da quella malavita che aveva giurato di combattere – e che ha combattuto, fino a ieri.

Amsterdam sotto choc

Peter de Vries non ce l’ha fatta: oggetto di un agguato a colpi di arma da fuoco il 6 luglio, è deceduto ieri, dopo una lotta contro la morte durata ben nove giorni. Era stato ricoverato perché vittima di una sparatoria: ignoti lo avevano atteso all’uscita dagli studi dell’emittente televisiva RTL, dove si era recato per registrare un’intervista. Le condizioni erano parse gravissime sin da subito: ferito da diversi proiettili, era stato colpito anche in testa.

La sera stessa dell’agguato, sullo sfondo degli interventi pubblici di re Guglielmo Alessandro che aveva parlato di “attacco allo stato di diritto” , del primo ministro Mark Rutte e persino di Ursula von der Leyen, le forze dell’ordine avevano tratto in arresto tre sospetti al culmine di un’imponente caccia all’uomo. Uno dei tre era stato rilasciato il giorno successivo, mentre agli altri due – un 35enne polacco sul quale pende un mandato di cattura in madrepatria e un 21enne olandese – era stato confermato il fermo, ancora in vigore.

L’importanza del caso de Vries

Perché la nazione sia sotto choc è chiaro: non si è trattato di un semplice omicidio. Questo è l’omicidio più importante degli ultimi undici anni, nonché uno dei più sconvolgenti del primo arco degli anni Duemila – si deve tornare indietro di diciassette anni, cioè all’assassinio di Theo van Gogh del 2004, per trovare un caso comparabile. De Vries, invero, era la stella polare del giornalismo investigativo nederlandese: un veterano la cui lunga carriera lo aveva condotto ad indagare sul sequestro Heineken, sulla sparizione di Natalee Holloway e sull’omicidio di Mariska Mast, nonché a dirigere documentari, scrivere libri, vincere premi e aiutare le forze dell’ordine in qualità di esperto.

Il tempo, si spera, ci aiuterà a capire il contesto in cui è maturato l’agguato mortale, anche se gli inquirenti stanno seguendo una pista dalla prima ora. O meglio: credono fermamente in una teoria e stanno lavorando senza sosta ai fini del recupero delle prove e della traduzione in arresto di ognuno dei colpevoli. Questa pista, che al momento è la più accreditata, poggia su due elementi indiziari: i trascorsi del defunto giornalista e le parentele del 21enne nederlandese fermato la sera dell’agguato. Questa pista che, forse, è più di una pista nasce nelle periferie abbandonate di Amsterdam, si spande tra i ghetti etnici di Bruxelles, il porto di Anversa e le banlieue francesi, traversando le strade affollate della Costa del Sole e le montagne del Rif marocchino, per poi sfociare, infine, tra i grattacieli futuristici di Dubai. Questa pista è la pista del narco-banditismo, che nei Paesi Bassi risponde al nome di Mocro Maffia.

L’ombra della Mocro Maffia

De Vries era il nemico giurato del crimine organizzato nederlandese sin dagli anni Ottanta. Un crimine che, stando alle risultanze investigative, con il tempo è divenuto sempre più organizzato e sempre meno nederlandese. Perché oggi, 2021, i mercati illeciti dei Paesi Bassi sono dominati in maniera quasi monopolistica dai sanguinari soldati della cosiddetta Mocro Maffia, il cui presunto padrino, tal Ridouan Taghi, altro non è che un consanguineo di quel 21enne arrestato la sera dell’agguato a De Vries.

La Mocro Maffia assomiglia più alla Camorra che a Cosa nostra: non ha né una struttura uniforme né un codice al quale gli affiliati debbono sottostare, ma è composta da una costellazione di bande, spesso e volentieri in guerra tra loro, con la fissazione per il controllo del territorio e per tutto ciò che è illecito. Bande con un debole per il traffico internazionale di sostanze stupefacenti che, nonostante le differenze, possiedono un elemento identitario in comune: non parlano olandese, ma arabo marocchino e/o turco. Bande che, facendo leva sul potere dell’identità, hanno stretto legami ed alleanze nelle madripatrie – cioè Marocco e Turchia –, con i gruppi del narco-banditismo francese e con le controparti stanziate in Spagna, soppiantando la grande criminalità autoctona e scalando progressivamente i vertici del crimine organizzato transnazionale.

Le autorità olandesi hanno motivo di credere nel possibile coinvolgimento della Mocro Maffia dietro all’omicidio di De Vries per almeno tre ragioni: il crescendo di inchieste del defunto giornalista sulle attività del crimine organizzato olandese 2.0, la parentela con Taghi di uno dei due sospettati per l’omicidio e il suo figurare all’interno di una “lista della morte” formulata da Taghi in persona due anni or sono.

Ma chi è Ridouan Taghi? Classe 1977 e di origini marocchine, Taghi è ritenuto il capo della mafia senza capi, la Mocro Maffia appunto. Un criminale temuto e temibile, che sarebbe riuscito laddove nessuno aveva avuto successo prima di lui: ottenere il rispetto ed il timore reverenziale necessari a dominare la camorristica criminalità organizzata turco-marocchina. Temuto, sì, ma anche amato: perché a Taghi andrebbe l’onore di aver portato i narco-banditi dei ghetti olandesi in alto, ovverosia a fare affari (e soldi veri) con la Camorra, con la mafia irlandese, con i clan dell’ex Iugoslavia e con i cartelli della droga sudamericani. Affari che gli avevano permesso di prendere residenza stabile a Dubai, da dove avrebbe gestito un terzo di tutti gli arrivi di cocaina nei porti di Rotterdam e Anversa e da dove è stato gentilmente consegnato alle autorità olandesi nel dicembre 2019.

De Vries aveva seguito il caso Taghi sin dai primordi, contribuendo personalmente all’allestimento del maxi-processo alla Mocro Maffia – il processo Marengo –, attualmente in corso e che vede al banco degli imputati diciassette persone per reati che vanno dal traffico di droga all’omicidio. Un processo che sembra ambientato nell’Italia degli anni bui, dei caldi Settanta, Ottanta e Novanta, e che, invece, sta avendo luogo in uno dei polmoni dell’Europa avanzata. Un processo bagnato dal sangue dei familiari dei “pentiti” – Nabil B., unico collaboratore di giustizia, ha dovuto seppellire suo fratello nel marzo 2018 –, di blogger Martin Kok, ucciso l’8 dicembre 2016 – e persino di uomini di giustizia Derk Wiersum, avvocato di Nabil, assassinato il 18 settembre 2019. Un processo che il 15 luglio di quest’anno sembra che abbia martirizzato un altro innocente: Peter de Vries.

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