Una bomba sotto il sedile della sua macchina. Termina così l’esistenza travagliata di Hashi Omar Hassan. Travagliata perché il somalo, imprenditore in una terra a dir poco difficile, nel 1998 venne prelevato dal suo Paese, portato in Italia prima come testimone delle violenze perpetrate dai militari italiani durante la missione “Restore Hope” in Somalia, trasformandosi in un battito di ciglia nel principale indiziato per l’uccisione della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, datata 1994.
Il somalo venne condannato in Cassazione a 24 anni di carcere a seguito delle accuse mossegli da Ahmed Ali Raghe, detto Gelle, un suo connazionale che, come scoprirà Chiara Cazzaniga per la trasmissione Chi l’ha visto?, aveva mentito ed era stato pagato per farlo da non meglio specificate autorità italiane. Hassan usciva così di galera dopo 16 anni, ottenendo dallo Stato italiano un risarcimento di tre milioni e 181mila euro. Sarebbe proprio questa improvvisa disponibilità di denaro alla base della sua uccisione
Stando a fonti locali, infatti, Hashi Omar Hassan avrebbe ricevuto diverse richieste di pagamento del pizzo da parte di esponenti dell’organizzazione terroristico/criminale Al Shabaab. All’ennesimo rifiuto di piegarsi, la letale rappresaglia. Ma il dubbio che il movente di questa uccisione sia riconducibile solo ed esclusivamente a un questione di denaro non può essere escluso.
Non se pensiamo che la vicenda per cui Hassan ha passato da innocente 16 anni di carcere, l’uccisione di Alpi e Hrovatin, è rimasta una ferita aperta della nostra storia recente che, proprio in queste settimane, sta tornando timidamente alla ribalta, al di fuori dai grandi canali di comunicazione.
Legata alla vicenda Alpi/Hrovatin c’è infatti una lunga scia di morti
Pensiamo agli 007 Vincenzo Li Causi e Mario Ferraro, pensiamo ai sette marinai massacrati nel porto algerino di Djen Djen, pensiamo a Marco Mandolini, il parà della folgore massacrato a Livorno che, stando alle indagini svolte per conto della famiglia dal criminologo Federico Carbone e dall’avvocato Dino Latini, stava indagando informalmente sulla morte del suo collega e amico Li Causi.
Avuta notizia della morte di Hassan, abbiamo tempestivamente sentito proprio il criminologo Carbone, che conviene con noi su un punto specifico: “Sicuramente la tempistica è quantomeno sospetta”. Alla domanda del perché anche lui pensi così, la risposta è chiara: “È sospetta in particolare in riferimento alla declassificazione di molti documenti. E lo è ancora di più considerando i diversi procedimenti in corso che tirano in ballo più o meno indirettamente la vicenda Alpi”.

Il dottor Carbone si riferisce ovviamente all’attività che sta svolgendo sulla vicenda Mandolini e che sta portando alla luce nuovi dettagli a dir poco sconcertanti, uno dei quali ha deciso di condividere con noi in anteprima: “In merito alle mie indagini sulla morte di Marco Mandolini, ho avuto modo di parlare con un’agente dei servizi che ha operato per molti anni a stretto contatto con apparati d’intelligence americani, che mi ha rivelato che durante alcune operazioni segrete dell’esercito statunitense in Somalia, hanno più volte rinvenuto intere montagne di cadaveri posti uno sopra l’altro, con delle deformazioni difficilmente riconducibili a qualcosa di noto”.
Il riferimento è all’esposizione con materiale tossico, probabilmente radioattivo
Per tornare dunque al tempismo della morte di Hassan – che abbiamo definito sospetto – gli elementi sono questi. Il lavoro di indagine su vicende variamente collegate tra loro, sembra aver innescato un effetto domino imprevedibile. E c’è da chiedersi se il somalo saltato in aria non vada ad aggiungersi alla lunga lista di bocche chiuse per sempre a causa di un background di conoscenze comuni. Conoscenze legate ai rapporti tra Italia e Somalia tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta. Rapporti che vedono nel Paese africano un oscuro crocevia di interessi inconfessabili. Traffico di armi e di materiale radioattivo in primis.