Un locale notturno di una Bagdad ancora in vita. Una festa di compleanno in onore del figlio del leader e lui, il festeggiato, che ride sornione con un kalashnikov in mano. È questa una delle immagini ritratte da un video degli anni ’90 in cui il protagonista è Uday Hussein, primogenito del presidente iracheno Saddam Hussein.

Pochi secondi che però dimostrano quello che gli esperti definiscono “analfabetismo emotivo“. Il figlio del rais si divertiva così nella capitale irachena, spaventando chiunque incrociasse il suo cammino. La storia di Uday è diversa da quelle dei figli dei leader terrorizzati dal confronto del padre: nel suo carattere è infatti possibile riscontrare un’inquietante vocazione verso la violenza.

I primi passi verso la violenza

Nato il 18 giugno del 1964, Uday Hussein è stato il primo figlio a consacrare l’unione tra Saddam e la prima moglie, nonché cugina di primo grado, Sayyida Talfa. Una vita fatta di agi dove ogni desiderio poteva divenire realtà con uno schiocco di dita. Viaggi, auto di lusso e donne non hanno mancato di scandire i momenti delle giornate del figlio del dittatore: “Nella figura del figlio di Saddam Hussein – come spiegato su InsideOver dal criminologo e sociologo Marino D’Amore – sono rintracciabili comportamenti risultanti da un modello di socializzazione fondato sul principio di emulazione della figura del padre; un modello glorificato anche come fondamento del processo di costruzione della identità del soggetto stesso che lo ha arricchito di significati ancora più violenti”.

E il cammino di Uday è stato contrassegnato da azioni molto violente: ogni suo desiderio doveva essere un ordine, ogni suo parere era quello che doveva contare. Tutto ciò ad ogni costo: anche con la morte di chiunque intralciasse i suoi piani. Gli episodi cruenti non sono mancati nemmeno nel rapporto con le donne. Così come riportato dalla Reuters, che ha visionato diversi documenti ritrovati a Baghdad dopo la fine del governo di Saddam, in tante sono state rapite per strada e portate nei suoi appartamenti. Dopo la consumazione del rapporto venivano marchiate con la “U”, l’iniziale del nome del figlio del rais. La donna che si opponeva durante il rapimento veniva uccisa. “Saddam Hussein, storicamente una figura profondamente assolutista e accentratrice – ha spiegato ancora il sociologo e docente dell’Università Niccolò Cusano –  ha concentrato su di sé un potere totalizzante e indiscutibile, che nella sua stessa definizione non ammetteva nessuna forma di dissenso”. Il figlio ha estremizzato nella sua vita privata questi concetti: “La commistione sinergica di tutti questi elementi – ha infatti affermato D’Amore – ha generato in Uday l’emersione di un profondo analfabetismo emotivo che, unito a un evidente deficit empatico, ha, a sua volta, stimolato la genesi di un’evidente componente narcisista come tratto predominante della sua personalità”.

Il delirio di onnipotenza

In piena maturità i crimini consumati da Uday Hussein si sono susseguiti come se fossero stati degli eventi naturali. Guai a porre in essere un comportamento che potesse indispettirlo anche di poco: la punizione non sarebbe tardata ad arrivare. Questo ha fatto si che Uday collezionasse omicidi efferati uno dopo l’altro. A 27 anni ad esempio ha ucciso due ufficiali dell’esercito. Uno perché non gli aveva concesso la mano della moglie per un ballo e l’altro perché si era opposto di consegnargli la figlia per portarsela a letto. Nel 1988, durante un ricevimento in onore dell’ex first lady egiziana Suzanne Mubarack, ha ammazzato a sprangate anche il degustatore del cibo di Saddam, Kamel Hanna Gegeo. Agli occhi di Uday, la sua “colpa” era quella di aver introdotto nella camera da letto del padre Samira Fadel Shahbandar, amante e futura seconda moglie del rais. Sono stati più di una decina gli omicidi commessi e più di cento quelli commissionati, secondo rapporti emersi da Baghdad dopo la caduta del rais. Uday non avrebbe risparmiato, quando dirigeva il comitato olimpico iracheno, anche gli atleti “colpevoli” di aver deluso sue aspettative. Per loro erano previste carcerazioni e torture. In questo modo Udey Hussein faceva capire che nessuno poteva mettersi contro di lui.

Il rifiuto di un contraddittorio

L’atteggiamento di Uday Hussein è stato quello tipico di un dittatore anche se lui non ha mai raggiunto la posizione politica del padre: “Un comportamento affine a quello di Saddam Hussein – ha dichiarato Marino D’Amore – ma che, al tempo stesso, ne ha rappresentato un’evoluzione recrudescente, che non solo ha sempre rifiutato il contradditorio, l’opposizione o l’errore altrui, ma addirittura ha reso questi ultimi uno stigma imperdonabile da punire, a volte con la morte, attualizzando una duplice valenza simbolica: quella della sanzione e quella del monito per chi sopravvive e vuole continuare a farlo”.

Chiunque avesse a che fare con Uday Hussein doveva in un certo modo privarsi della personalità pensante per tutelare la propria incolumità: “In questa situazione – spiega il docente D’Amore –  si è imposto uno scenario in cui la volontà e il libero arbitrio degli altri attori, coinvolti nel processo relazionale, è stato continuamente neutralizzato. Se ne è negata la possibilità esistenziale e l’opportunità in quanto tale, fagocitata da quella di Uday, ostentata come l’unica modalità decisionale possibile e, come tale, da accettare in maniera incondizionata, fideistica. Pena, in caso contrario, la violenza declinata in ogni sua manifestazione come l’eliminazione fisica, secondo un meccanismo di causa- effetto ripetuta senza soluzione di continuità”.

Anche Saddam perse la pazienza

Suo padre ha iniziato a intuire il vero carattere del figlio dopo l’omicidio di Kamel Hana. In quell’occasione anche il presidente egiziano Hosni Mubarack ha definito Uday uno “psicopatico”. Non appena informato dei fatti, Saddam Hussein ha imprigionato il primogenito. Fino a quel momento per lui Uday era l’erede perfetto, il figlio a cui lasciare il potere negli anni successivi. Le cronache uscite da Baghdad in quell’epoca parlavano di un rais sconvolto per il comportamento del suo successore. E questo sia sotto il profilo umano che politico: i crimini di Uday pesavano sulla reputazione interna ed estera del suo governo e della sua famiglia. C’è anche chi, ma questo non è mai emerso ufficialmente dalle carte ereditate da quel periodo, ha sostenuto in Iraq che Saddam avesse anche pensato di condannare a morte il figlio.

Alla fine la soluzione presa è stata di natura diplomatica: Uday è stato fatto uscire di prigione, al contempo però è stato spedito in Svizzera a lavorare nella locale ambasciata irachena. Ben presto però Saddam lo ha dovuto richiamare: anche nella capitale elvetica il figlio ha dato prova del suo carattere, aggredendo un poliziotto svizzero. Il rais lo ha quindi messo in disparte: nelle gerarchie familiari era adesso il secondogenito Qusay ad aver preso il sopravvento. Anche per il padre Uday non era più in grado di esercitare alcun ruolo all’interno della famiglia e del Paese. Da parte sua però, l’ex erede non ha mai mostrato alcun segno né di pentimento e né di comprensione dei suoi limiti caratteriali. Al contrario, soltanto una menomazione fisica dovuta a un attentato da lui subito il 12 dicembre 1996 a Baghdad, lo ha persuaso dal compiere ulteriori crimini di natura violenta.

La fine di Uday a Mosul

Gli ultimi anni di vita del figlio di Saddam hanno coinciso con gli ultimi anni del governo del padre. Nel 2000 il rais ha ufficialmente nominato Qusay quale suo successore, affidandogli il comando della Guardia repubblicana, corpo d’élite di un esercito comunque molto debole e non in grado, da lì a breve, di fronteggiare l’attacco lanciato dagli Stati Uniti nel marzo del 2003. Nel contesto della lotta al terrorismo post 11 settembre infatti, l’allora presidente Usa George Bush jr ha dichiarato guerra all’Iraq con l’accusa, poi rivelatasi infondata, di armi di distruzione di massa in mano a Saddam. Quest’ultimo, per placare i malumori del primogenito, ha affidato ad Uday il comando dei cosiddetti “Fedayyin“, miliziani non inquadrati nell’esercito regolare.

Saccheggi a Baghdad, sullo sfondo una statua di Saddam Hussein (LaPresse)
Saccheggi a Baghdad, sullo sfondo una statua di Saddam Hussein (LaPresse)

Con l’arrivo degli americani a Baghdad il 9 aprile 2003 e lo sgretolamento del potere di Saddam, Uday ha iniziato a nascondersi fuggendo dalla capitale irachena assieme al fratello Qusay. Il 22 luglio 2003 i due sono stati rintracciati dalle forze statunitensi nella città di Mosul: l’incursione è risultata fatale per entrambi i fratelli, oltre che per Mustafa Hussein, figlio 14enne di Qusay. È finita così in quel modo la vita e, con essa, la storia criminale di Uday. Al momento della morte aveva 39 anni. Molti iracheni hanno festeggiato più per la sua scomparsa che per la caduta del padre. Uday Hussein è stato sepolto nella città natale della famiglia, a Tikrit, assieme al fratello e al nipote. Accanto a loro, nel dicembre 2006, è stato posizionato il corpo di Saddam dopo l’esecuzione della condanna a morte decretata in quell’anno nei confronti dell’ex rais.

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