Nel Mar Rosso, a circa sette chilometri dal porto di Ras Isa (nord-ovest dello Yemen) è ormeggiata, dal 1998, la petroliera Safer, di proprietà della più importante compagnia petrolifera yemenita, la Sepoc.

Gli esperti ambientali l’hanno definita una “bomba galleggiante”, visto che un minimo cedimento strutturale si tradurrebbe in una catastrofe ambientale ed umanitaria, circostanza che, a causa dello stato di abbandono in cui versa la nave cisterna da almeno 4 anni, potrebbe avvenire in qualsiasi momento.

La nave è rimasta in attività fino alla fine degli anni ’90, svolgendo la funzione di deposito e terminal per le esportazioni. La manutenzione è avvenuta ogni anno, non senza problemi, fino al 2015.

Al momento dello scoppio della guerra civile tra i ribelli Houthi (sostenuti dall’Iran) ed il governo dello Yemen (appoggiato da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) la situazione della petroliera si è ulteriormente invorticata. Le autorità Houthi e il governo yemenita, si contendono, infatti, i ricavi del greggio a bordo della Safer, stimati in oltre 60 milioni di dollari (53,8 milioni di euro). Secondo quanto dichiarato dall’Onu, la nave è letteralmente abbandonata da 4 anni.

A ciò si aggiunge la completa indisposizione dei ribelli Houthi, che controllano stabilmente l’area, a far intervenire alcuni esperti per effettuare rilievi e dare una lettura chiara dello stato dell’arte. Un particolare perlomeno grottesco, visto che all’inizio del 2018, furono proprio i ribelli Houthi a segnalare l’emergenza relativa alla petroliera, chiedendo il sostegno dei un team di esperti.

Il pericolo più incombente riguarda le caldaie di produzione di gas inerte presenti sulla petroliera, che hanno smesso di funzionare. L’assenza di gas inerte accende una spia rossa sulla questione, perché tale gas, posizionato a riempimento al di sopra del petrolio nei serbatoi di stoccaggio, impedisce la combustione, come chiarito dal Ceobs (spiega il Conflict and Environment Observatory). L’assenza del gas inerte favorisce l proliferazione di gas potenzialmente esplosivi.

Se non si interviene lo scenario potrebbe assumere contorni apocalittici, con il riversamento in mare di petrolio. Una quantità così ingente (circa 1,14 milioni di barili di greggio) che potrebbe arrivare, in poco tempo, a lambire il Canale di Suez e l’Egitto, ed arrivare fino allo stretto di Hormuz, tra Emirati Arabi Uniti e Iran.

Un’autentica condanna a morte per fauna e flora marine e per le economie delle comunità adiacenti di Egitto, Eritrea, Arabia Saudita, Sudan, Yemen e Israele.

Il pericolo era già stato anticipato, a maggio 2019, da Doug Weir, del Ceobs: “Mentre Exxon Valdez (superpetroliera che 30 anni fa riversò 42.000 m³ di greggio e inquinò 1.900 km di coste) ha sversato petrolio nelle fredde acque al largo dell’Alaska, dove la degradazione del petrolio sarebbe stata più lenta che nelle calde acque del Mar Rosso, Ras Isa si trova nei pressi di una delle poche aree marine protette dello Yemen al largo dell’isola di Kamaran, le cui mangrovie e barriere coralline sostengono la pesca locale. Le capacità di risposta dello Yemen all’inquinamento locale non sarebbero sufficienti per gestire una fuoriuscita di grandi dimensioni, e a complicare la situazione ci sarebbero le questioni riguardante la sicurezza navale nel Mar Rosso”.

La questione rischia di precipitare in maniera irreversibile. Attendiamo ed auspichiamo repentini sviluppi: è necessario trovare una soluzione in tempi brevissimi, almeno per mettere in sicurezza la nave.

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