Negli ultimi mesi è tornata oggetto di discussione la questione dell’impatto ambientale delle criptovalute, bitcoin in testa, e dei processi di calcolo energivori che il loro processo di generazione (il cosiddetto mining) impone.
Sono note da diverse settimane le statistiche che vedrebbero, in particolare, un boom delle emissioni connesse alla produzione di bitcoin. Criptovaluta che complessivamente assorbe una quantità di energia pari a quella consumata annualmente in Stati come Egitto e Polonia, classificandosi al ventiseiesimo posto su scala globale con 136 TWh di consumi. Inoltre, secondo i dati del Bitcoin Electricity Consumption Index dell’Università di Cambridge – due terzi dei miner si trovavano in Cina, che ricava circa il 60 per cento dell’energia dal carbone, la fonte fossile più inquinante.
Tale questione è stata sollevata in un intervento nel corso del ciclo di conferenze del “New York Times DealBook” dal segretario al Tesoro Usa ed ex governatrice della Fed Janet Yellen, la quale in quell’occasione ha affermato che “nella misura in cui è usato [il bitcoin, ndr], temo che sia spesso per finanza illecita. È un modo estremamente inefficiente di effettuare le transazioni, la quantità di energia che viene consumata nel processarle è impressionante”. Anche Elon Musk, che aveva accettato a inizio 2021 i bitcoin come mezzo di pagamento nello store online Tesla, ha fatto rapidamente dietrofront accusando i bitcoin di essere eccessivamente impattanti in termini ambientali.
Al di là dell’oggettiva giravolta compiuta dal magnate americano di origini sudafricane dopo l’apertura e il via libera al bitcoin sui sistemi di pagamento Tesla e della contemporanea polemica scoppiata sulla sua manipolazione a mezzo social di un’altra criptovaluta, il Dogecoin, Musk non ha certamente errato nel definire molto impattante la più celebre criptovaluta al mondo. In un paper di inizio marzo anche la Banca d’Italia ha sottolineato l’impatto ambientale del bitcoin segnalando che esso era stato, nel 2019, 40mila volte maggiore di quello dei data center che gestiscono il sistema europeo di pagamenti Tips.
Il discorso che vale per il bitcoin per diffusione, modalità massive di mining, distribuzione geografica della maggior parte dei generatori e attenzione mediatica non si applica automaticamente a tutte le altre criptovalute, per quanto anche Ethereum, la seconda più diffusa al mondo, sia afflitta dagli stessi problemi. Il citato Dogecoin, per fare un esempio, è legato a una tecnologia blockchain dispendiosa di energia ma data la minor diffusione ha un peso relativamente basso.
Una storia diversa vale invece per Cardano, una criptovaluta meno conosciuta basata su una tecnologia blockchain meno dispendiosa di energia elettrica. E non a caso il suo valore è cresciuto nelle ore dell’annuncio di Musk, in contro tendenza rispetto al mercato. Come ha fatto notare l’Independent, infatti, Cardano utilizza una tecnologia che non impone a ogni dispositivo nella rete blockchain di risolvere difficili calcoli e sfide per dimostrarsi presente in ciascun punto della rete, ma adotta uno schema maggiormente cooperativo non impegnando i computer in una gara di “tutti contro tutti”.
Questo è un punto fondamentale che segnala come sia una soluzione ben poco efficace quella proposta da molti analisti di “verniciare” di verde le criptovalute tradizionali incentivando il mining alimentato con tecnologie in grado di sfruttare fonti rinnovabili. Questo perchè è il lavoro delle macchine, oltre alla fonte, il problema. E questo è altresì vero quando si guarda alle transazioni interne al sistema. Come ha riportato sul suo sito SkyTg24, “quando ci si scambia un Bitcoin la transazione deve essere validata e organizzata nella catena crittografata: a questo servono i cosiddetti “miner”, i minatori, che offrono la potenza di calcolo necessaria in cambio di pagamenti in nuovi Bitcoin appena coniati”. In sostanza, di conseguenza, “chi mette a disposizione più potenza di calcolo vince e si porta a casa i nuovi Bitcoin (secondo il processo della “proof of work”). È una vera e propria competizione, che consuma però enormi quantità di energia elettrica“.
Il “greenwashing”, dunque, non salverà l’ambiente preservando l’attuale competizione selvaggia nel mondo delle criptovalute. Ma al contempo sarebbe semplicistico ridurre il problema delle criptovalute al mero dato ambientale. Di principio, si deve segnalare che il peso dei bitcoin e delle altre criptovalute sull’economia globale non è comparabile, in termini di attività e impatto, ai volumi (e ai consumi) del sistema bancario tradizionale e delle transazioni in valute comuni, il cui impatto è semplicemente impossibile da stimare. In secondo luogo, la questione ambientale non è che un epifenomeno della problematica principale dei bitcoin, ovvero la loro natura di prodotto di investimento di natura sostanzialmente speculativa, fattore di destabilizzazione delle dinamiche economiche e di drenaggio di ampi quantitativi di risorse economiche dai mercati tradizionali. A questo si aggiunge un gravissimo vulnus relativo alla sostanziale assenza di trasparenza che la lotta di tutti contro tutti nella blockchain non fa altro che incentivare. Certamente sensibilizzare sul peso ambientale della speculazione in criptovalute è interessante e utile per segnalarne i rischi. Ma non si compia mai l’errore di guardare il dito e non la luna: è il sistema in sé delle presunte valute digitali a essere instabile e problematico. Indipendentemente dal fattore emissioni.