Isteria mediatica, ripicche politiche, voci non confermate, posizioni scientifiche. C’è questo e molto altro nello scontro sul pesce che sta scuotendo l’Asia in seguito alla rilascio nell’oceano dell’acqua trattata dalla centrale nucleare di Fukushima da parte del Giappone.
Nonostante lo scorso luglio l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) avesse concluso che il piano di scarico, attentamente supervisionato passo dopo passo, fosse conforme agli standard globali di sicurezza e dotato di un impatto “trascurabile” su persone e ambiente, non sono mancate le proteste. In certi casi feroci, come nel caso di quelle esplose in Corea del Sud e in Cina.
Attenzione però, perché se a livello governativo non sembrano esserci screzi tra Seul e Tokyo, tutto il fervore è incastonato tra le pieghe della società civile. Detto altrimenti, i cittadini comuni temono che il rilascio dell’acqua della centrale di Fukushima in mare aperto possa avere conseguenze nefaste per l’ambiente, per i pesci e dunque anche per l’alimentazione. Lo stesso credono diversi commercianti e pescatori di vari Paesi della regione, preoccupati che la vicenda possa impattare le loro attività economiche.
L’azione più eclatante è tuttavia arrivata da Pechino, con lo stop a tutte le importazioni di prodotti ittici nipponici, al punto che il governo giapponese starebbe pensando di presentare un reclamo presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc).
Lo scontro Cina-Giappone su Fukushima
Il ministro per la Sicurezza Economica del Giappone, Sanae Takaichi, nel corso di una conferenza stampa ha ammesso che l’esecutivo valuta contromisure contro le restrizioni alle importazioni dei prodotti del Sol Levante imposte da Pechino, inclusa la presentazione di un reclamo presso l’organismo del commerciale globale, dal momento che “inoltrare un reclamo attraverso i canali diplomatici non si è rivelato utile”. Precedentemente anche il ministro degli Esteri, Yoshimasa Hayashi, aveva dichiarato in una sede separata che il Giappone prenderà “misure necessarie nell’ambito di strutture come l’Omc”, sottolineando l’importanza di una comunicazione ravvicinata tra i due paesi, “al fine di mantenere una relazione costruttiva”.
Anche i governi di Hong Kong e Macao, entrambe regioni semi-autonome della Cina, hanno vietato le importazioni di prodotti ittici dal Giappone all’indomani dell’avvio delle operazioni di sversamento dell’acqua dal sito danneggiato dal disastro del 2011. Dal canto suo, la Cina ha definito il rilascio dell’acqua del Giappone “un atto estremamente egoista e irresponsabile“. Analoga la risposta di Hong Kong, che ha deciso di imporre restrizioni sulle importazioni di prodotti ittici da 10 prefetture giapponesi, tra cui Fukushima e Tokyo.
“La Cina deve revocare il divieto di importazione di tutti i prodotti ittici giapponesi”, ha dichiarato il premier nipponico Fumio Kishida davanti ai media locali. “Continueremo ad esortare fermamente il governo cinese a consultare esperti che discutano dell’impatto del rilascio nell’oceano dell’acqua trattata basandosi su prove scientifiche”, ha quindi aggiunto.
Le accuse tra i due Paesi vanno avanti da diversi giorni anche sul fronte dei social media: dalle manipolazioni di immagini che mostrano pesci deformi collegati alla catastrofe nucleare provenienti dalla Cina, alla pubblicazione dei numeri governativi da parte del quotidiano conservatore nipponico Yomiuri Shimbun relativi agli scarichi delle centrali cinesi, calcolati di sei volte e mezzo superiori a quelli di Fukushima (con i dati che si basano su statistiche annuali del settore dell’energia nucleare in Cina e su rapporti forniti dagli operatori delle centrali).
Le conseguenze per l’industria ittica
Nei prossimi 30 anni, il Giappone ha in programma di scaricare più di un milione di tonnellate di acqua immagazzinata nella centrale nucleare di Fukushima. Tokyo ha più volte ripetuto che l’acqua è sicura e l’organismo di vigilanza nucleare delle Nazioni Unite ha approvato il piano, ma i critici sostengono che il rilascio dovrebbe essere fermato. Per la cronaca, l’acqua viene filtrata per rimuovere la maggior parte degli elementi radioattivi e poi diluita per ridurre i livelli di trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno difficile da separare dall’acqua.
Per tentare di arginare la preoccupazione dell’opinione pubblica per le possibili conseguenze sui prodotti ittici del suddetto processo, il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol e il primo ministro Han Duck-soo hanno consumato un pasto a base di frutti di mare, secondo quanto riferito da fonti dell’ufficio presidenziale citate da Yonhap. Di fronte a un drastico calo del consumo di pesce in Corea del Sud, il governo ha così cercato di dimostrarne la sicurezza. Frutti di mare sono stati serviti anche nella mensa interna dell’ufficio presidenziale dove, secondo le fonti ufficiali, saranno offerti vari tipi di prodotti ittici, a cominciare dal pesce crudo a fette allo sgombro alla griglia, durante l’intera settimana.
La variabile economica
Il 26 agosto, migliaia di persone erano scese in strada a Seoul per protestare contro l’iniziativa del Giappone. “Lo scarico di acqua contaminata da fonti nucleari è una dichiarazione di guerra contro le nazioni che si affacciano sull’Oceano Pacifico. Il Giappone dovrebbe chiedere scusa alla Repubblica di Corea, che è il paese più vicino e sta subendo i danni maggiori”, ha affermato il leader del DP Lee Jae-myung. Per la Bbc, il governo giapponese ha affermato che i test sull’acqua di mare attorno alla centrale nucleare di Fukushima non mostrano livelli rilevabili di radioattività dopo il rilascio di acqua trattata dall’impianto nell’oceano.
L’isteria è comunque alle stelle, anche per quanto concerne il lato economico della vicenda. Nel 2022 le esportazioni di prodotti marini verso Pechino hanno raggiunto un valore di 160 miliardi di yen, pari a poco più di 1 miliardo di euro, pari al 40% circa del totale delle spedizioni estere in termini di valore. L’industria delle capesante è uno dei settori più a rischio, secondo un’indagine governativa, perché attraverso canali di lavorazione nella stessa Cina i pesci vengono esportati verso paesi terzi, inclusi gli Stati Uniti.
A questo riguardo il governo di Tokyo sta valutando modi per creare strutture di produzione in Giappone e stabilire nuovi canali di vendita. Un fondo del valore di oltre mezzo miliardo di euro è stato approvato per affrontare i danni all’immagine causati dal rilascio delle acque; i fondi, tuttavia, non coprono al momento le imprese che operano nei processi di trasformazione dell’industria della pesca. La società di ricerca Teikoku Databank stima che almeno 727 aziende giapponesi che esportano prodotti ittici in Cina, direttamente o indirettamente, saranno colpite dal recente divieto. Oltre la metà di queste generavano fino alla metà del proprio fatturato in Cina, mentre 164 erano principalmente impegnate nella trasformazione o vendita di prodotti ittici verso il Paese vicino.