In Europa si è iniziato a parlare di politiche ambientali negli anni ’90. E non è un caso. Tanti fattori concomitanti hanno contribuito a sviluppare, sul finire del secolo scorso, il dibattito sui cambiamenti climatici. In principio tutto forse è nato con la questione legata all’inquinamento. La nube di Chernobyl, il referendum in Italia sul nucleare, gli allarmi lanciati sullo stato di salute di aria e mare hanno accelerato le discussioni e le pressioni politiche sul tema. Poi sono arrivati gli allarmi sull’atmosfera. Sul finire dei ’90 a preoccupare maggiormente era l’ampiezza del buco dell’ozono. Si è arrivati così alla definizione del protocollo di Kyoto, il primo documento vincolante in cui sono stati fissati obiettivi e parametri da raggiungere per gli anni successivi.
Punto di partenza è stato, anche qui non a caso, il 1990. Ogni percentuale e numero riguardante un dato obiettivo ha avuto come base di riferimento l’anno che ha dato il via all’ultimo decennio del XX secolo. Il problema principale, nella riunione che ha dato vita al protocollo, ha riguardato le emissioni di anidride carbonica. Il primo obiettivo scritto nero su bianco è stato quello di arrivare alle riduzioni di emissioni del 20% entro il 2020 rispetto alla quantità riscontrata nel 1990. Un programma a lungo termine, considerato nel corso di questi anni come “ambizioso”, forse fin troppo.
Libri dei sogni o programmi realizzabili?
L’applicazione del protocollo sottoscritto nell’antica capitale giapponese ha rappresentato, sia per estimatori che per detrattori, una base importante. La velocità con cui il dibattito sull’ambiente è entrato nell’agone politico e mediatico ha imposto nuove valutazioni, sia nel breve che nel lungo periodo. Si è arrivati così a fissare nuovi parametri in altri incontri internazionali, come ad esempio in quello di Parigi del 2015. Qui, in particolare, si è parlato della possibilità di controllare l’aumento globale della temperatura limitandolo a 1.5 gradi rispetto ai 2 previsti dagli studiosi. Lo scetticismo però non è mancato. Tra i movimenti ambientalisti sono piovute critiche sulla lentezza delle decisioni prese e sul fissaggio di obiettivi considerati poco realistici.
In poche parole, da Kyoto a Parigi passando poi per le varie leggi nazionali o le tante direttive emanate sul tema dall’Unione Europea, in tanti hanno visto documenti contenenti sterili indicazioni di numeri e percentuali difficilmente traducibili in fatti concreti nella realtà. Del resto il fenomeno del “gretismo”, nato cioè sul movimento di protesta attorno l’ambientalista svedese Greta Thunberg, si basa proprio sulla critica rivolta ai governi dei Paesi industrializzati di non fare abbastanza per risolvere la questione ambientale. E, di conseguenza, di non saper attuare alcun documento sul clima firmato negli anni precedenti. Ma le cose stanno davvero così? Dal 1990 ad oggi non è per davvero cambiato nulla?
I risultati europei
Tra i maggiori risultati raggiunti dall’Europa, consolidati e da tempo sottovalutati nella narrazione più spinta sul fronte ambientalista, ci sono indubbi progressi sul fronte oggigiorno al centro della più attiva querelle mediatica: la riduzione delle emissioni.
Se l’Unione Europea può permettersi di considerare uno scenario tutt’altro che utopistico l’idea di tagliare del 55% le emissioni di anidride carbonica rispetto ai livelli del 1990 è perché i risultati acquisiti non mancano. E nonostante esso sia stato attaccato dagli ambientalisti perché insufficiente e osteggiato, spesso con toni eccessivi, anche dal mondo delle imprese europee e nordamericane il tanto bistrattato Protocollo di Kyoto del 1997 siglato sotto l’egida dello United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) è stato il primo punto di partenza per l’azione dell’Unione, i cui 15 Paesi membri fino al 2004 hanno promosso e realizzato un esplicito impegno a ridurre dell’8% le emissioni di anidride carbonica entro il 2012 sulla base del punto di partenza del 1990.
La presa di posizione in tal senso fu la premessa di tutte le altre, successive, fasi di consolidamento. L’obiettivo sancito da Kyoto di un taglio del 20% per il 2020 è stato sorpassato, contando anche i Paesi dell’Europa orientale entrati nell’Unione dal 2004 in avanti, con una riduzione dei gas serra emessi del 24%, di cui un significativo -3,7% solo tra il 2018 e il 2019. Questo è andato di pari passo con il 2030 Climate and Energy Framework, piano di partenza per la strategia Fit for 55, che prevede un impegno europeo a un taglio minimo del 40%, una presa di posizione senza precedenti e eguali in nessun grande mercato globale.
Non va dimenticato che l’Ue è stata poi in prima linea nel guidare i negoziati per gli Accordi di Parigi al Cop21 del 2015, contribuendo all’asse Usa-Cina che ha promosso il testo finale. L’accordo di Parigi mira a mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C e, se possibile, a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali.
Una strategia su più livelli
L’Unione Europea ha poi introdotto l sistema di scambio di quote di emissione dell’UE (Emmission Trading System, ETS), che rappresenta il primo e il più grande mercato internazionale del carbonio. L’ETS è ritenuto uno strumento strategico fondamentale dell’UE nella lotta ai cambiamenti climatici. per quanto spesso soffra la dipendenza dalle logiche di mercato come nella fase recente dell’inflazione dei prezzi delle materie prime. Tale sistema si basa sul principio di “limitazione e scambio”: viene fissato un tetto massimo alla quantità totale di emissioni di gas a effetto serra che possono essere prodotte da 11.000 impianti del sistema (fabbriche, centrali elettriche, raffinerie e via dicendo) e al suo interno le aziende e le utilities negoziano la disponibilità a vendere o acquistare “quote” di inquinamento producibile.
Non è stato secondario anche l’impegno legislativo in tal senso. La direttiva sulla promozione delle energie rinnovabili è intesa a garantire che, entro il 2030, le energie rinnovabili quali biomassa ed energie eolica, idroelettrica e solare rappresentino almeno il 32 % del consumo totale di energia dell’Unione, e il piano Next Generation Eu mira a consolidare la corsa a questo risultato, non dimenticando il ruolo fondamentale del gas naturale come risorsa ponte; La direttiva riveduta sull’efficienza energetica fissa un obiettivo di efficienza energetica per gli edifici del 32,5 % per l’UE (calcolato utilizzando lo scenario di riferimento del 2007) in termini di ottimizzazione dei consumi da conseguire entro il 2030 e con una clausola di revisione al rialzo entro il 2023
In questo contesto, la “legge climatica” votata nel giugno scorso dall’Europarlamento aggiunge sostanza al complesso delle politiche europee per disegnare un futuro spazio comunitario in grado di tutelare la sostenibilità climatica e ambientale e favorire la transizione ecologica. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza una chiara e coerente strada tracciata negli anni scorsi. Sostanzialmente, l’impegno sul taglio alle emissioni dà struttura e corpo agli altri due perni su cui l’Unione intende spingere per incentivare la transizione. Niente più avveniristici “Green New Deal”, di cui è da tempo dubbia l’utilità in un contesto in cui non servono palingenesi radicali come quello europeo, sorpassati da una commistione tra pragmatismo e azioni reali: l’impegno al taglio e alla ricerca della neutralità climatica entro il 2050, ufficializzata dalla Commissione il 14 luglio 2021, segue la poderosa dotazione di risorse all’ambiente nel quadro di Next Generation Eu, i cui finanziamenti per il 37% i Paesi dovranno riservare proprio alla transizione energetica, e la nascente proposta sui “dazi verdi”, il Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam), che mira a colpire con sanzioni commerciali i Paesi ritenuti intenti a “barare” sul tema del dumping ambientale.
Al di là della lotta per il clima, anche sugli altri e non secondari fronti della transizione energetica alcuni risultati sono stati conseguiti. Nel marzo 2019 il Parlamento europeo si è espresso definitivamente mettendo al bando i prodotti monouso in plastica che più inquinano i mari. Questo perché prodotti come piatti, posate e cannucce di plastica rappresentano il 70% dei rifiuti di marini e delle spiagge.
Rafforzato anche l’impegno per gli oceani, con il varo di di WISE, un portale d’accesso alle informazioni sulle questioni europee in materia di acque destinato al grande pubblico e ai soggetti interessati e finalizzato a promuovere una migliore governance degli oceani e una migliore gestione basata sugli ecosistemi, che si è aggiunto a investimenti volti a promuovere pesca sostenibile, economia blu, transizione energetica.
Parliamo di piani palingenetici? No, tutt’altro. E stranamente, aggiungiamo noi. Abituati a un’Unione Europea persa tra fughe nell’utopia e consapevolezze ridotte in termini geopolitici e strategici, ci riteniamo “carnefici” del pianeta non accorgendoci di aver conseguito, nel Vecchio Continente, progressi fondamentali a cui ora bisognerà aggiungere la cruciale sfida di far coniugare sviluppo economico e sostenibilità, promuovendo un ambientalismo pragmatico e al servizio dell’uomo. Perché solo di risultati concreti può vivere la partita ambientale. E accorgersi di quanto già realizzato è il primo passo per immaginare il futuro.