Terra, acqua e denaro: queste le ragioni principali per cui gli uomini combattono, invadono e depredano sin dall’alba dei tempi. Perché la terra è casa, il denaro è potere e l’acqua è vita. Sulla terra si costruisce, si alleva e si coltiva, con il denaro si comprano cose, uomini e anime e con l’acqua, invece, si sazia l’arsura perenne del corpo.
Oggi come ieri, e forse più di ieri, le guerre si combattono per l’oro blu, cioè per il controllo delle e/o l’accesso alle risorse idriche: fiumi, laghi, mari e falde acquifere. E se è vero che in terra caecorum monoculus rex, ne consegue che in un mondo quale quello attuale, crescentemente afflitto dalla piaga della scarsità idrica, chi possiede ingenti riserve di oro blu, o detiene gli strumenti per avervi accesso (o per sabotarle), è destinato all’egemonia.
La dura legge dell’acqua è salomonica, ha validità perenne ed è dietro al crescendo di tensioni nel cosiddetto Sud globale, come mostrano e dimostrano i casi della diga della discordia tra Egitto ed Etiopia, la contesa multinazionale sul fiume Giordano, la disputa guerrafreddesca tra India e Pakistan sull’Indo e, più di recente, la controversia del fiume Okchuchay tra Armenia e Azerbaigian.
La questione del fiume Okchuchay
L’Okchuchay è un fiume di 83 chilometri che attraversa il distrettto di Zangilan ed è al centro di una dura e lunga controversia tra Armenia e Azerbaigian. La sorgente è in terra armena, dove scorre per 47 chilometri prima di filtrare tra le valli montagnose del Nagorno Karabakh, presso le quali, sostiene Baku, trasporterebbe rifiuti tossici, scarti e altro materiale arrecante grave danno all’ambiente e all’utenza, a causa dell’attività di due impianti: lo “Zangezur Copper-Molybdenum Plant”, il cui principale azionista è la tedesca “Cronimet”, e lo “Chaarat Kapan” – entrambi localizzati in Armenia.
Una questione che risale al post-indipendenza, quella dell’avvelenamento dell’Okchuchay, come rammentano l’appello in sede di Nazioni Unite del 2003 e le accuse di terrorismo ambientale lanciate in direzione di Erevan nel 2008 dal Ministero dell’ecologia e delle risorse naturali di Baku. Numeri impressionanti, quelli riferiti (e documentati) dal governo azerbaigiano, che, a inizio luglio, hanno smosso persino il World Wildlife Fund (WWF): il fiume trasporterebbe, ogni giorno, 2.100 metri cubi di acqua contaminata, presentando livelli oltre la norma di nickel (7 volte superiori), ferro (4 volte superiori), rame (2 volte superiori), molibdeno (2 volte superiori) e altri metalli pesanti. Numeri, quelli di cui sopra, corroborati da evidenze scientifiche e prove documentali – eloquente, a quest’ultimo proposito, il video caricato su Twitter nella giornata del 2 luglio dall’assistente alla presidenza, Hikmet Hajiyev, che mostra graficamente la catastrofe ambientale in corso.
Water has been called “mining’s most common casualty”.#Okhchu river which flows from Armenia to Azerbaijan is unfolding environmental catastrophy. Heavy chemical contamination as a result of Armenia’s #mining industry. Responsible companies must stop their activities. pic.twitter.com/do5eoJrvVW
— Hikmet Hajiyev (@HikmetHajiyev) July 2, 2021
Un’acqua gravemente contaminata, dunque, e il motivo sarebbero gli scarichi di due impianti minerari localizzati in terra armena: quello per il trattamento di rame e molibdeno di Gajaran e quello per il rame di Kafan. E oggi, dopo vent’anni di scarichi tossici ininterrotti, l’Okchuchay è sul punto di essere considerato “morto”, cioè privo di flora e fauna, perché il persistere dell’inquinamento ha progressivamente ucciso quasi ogni forma di vita in precedenza ospitata.
La complessità della vicenda
L’Azerbaigian ha un problema di vulnerabilità idrica: il 67% dei fiumi che ne attraversano il territorio ha origine altrove, come nel caso dell’Okchuchay, che nasce in Armenia, che non ha mai sottoscritto la Convenzione sulla protezione e l’utilizzo dei corsi d’acqua transfrontalieri e dei laghi internazionali del 1992 e con i quali, perciò, è difficile intavolare un dialogo costruttivo in materia di sfruttamento solidale delle risorse idriche e assunzione delle responsabilità per crimini ambientali.
Erevan non ha mai negato l’evidenza né ha contestato la veridicità dei numeri di produzione azebaigiana: due anni or sono, ad esempio, l’esecutivo armeno aveva ammesso l’esistenza di un serio problema di inquinamento derivante dalle attività del complesso per il rame e il molibdeno di Gajaran. Non erano state le lamentele di Baku a sensibilizzare la classe politica armena, però, quanto i reclami degli ambientalisti locali.
Le analisi prodotte dagli esperti azerbaigiani hanno accertato come dai corsi d’acqua di origine armena vengano trasportati metalli pesanti in quantità oltremodo elevate, indi dannose per l’ambiente e la vita umana, in particolare rame, molibdeno, manganese, ferro, zinco e cromo. Trovare una soluzione definitiva al problema è più che importante, è fondamentale, perché l’Okhchuchay non è un caso a se stante e perché dalla salute di questa costellazione di corsi d’acqua che sorgono in quelle aree dipendono l’agricoltura e la vita in Azerbaigian.