Limitare l’inquinamento, anche a costo di chiudere centinaia di fabbriche tossiche e mettere in discussione la crescita economica del Paese, oppure concentrarsi sul Pil, relegando in secondo piano l’emergenza ambientale? La Cina e i suoi dirigenti stanno cercando senza successo di risolvere questo rompicapo da anni.

Pechino ha tracciato un percorso green oriented e imposto politiche alquanto ferree, soprattutto se paragonate con il lassismo del recente passato. Da quando Xi Jinping è diventato presidente, la questione ambientale ha iniziato a guadagnare posizioni su posizioni all’interno dell’agenda politica del Partito Comunista cinese. Allo stesso tempo l’opinione pubblica, costituita da individui sempre più ricchi, ha iniziato a mal digerire gli episodi di scarsa tutela del territorio.

Le autorità sono dunque scese in campo per fare qualcosa di concreto. In che modo? Ad esempio imponendo il ban all’utilizzo del carbone per riscaldare le abitazioni private, alle auto inquinanti e alle aziende le cui emissioni rappresentano un rischio per il clima. La tutela ambientale sembrerebbe esser diventata un elemento centrale della Cina del XXI secolo, eppure permangono diversi nodi spinosi ancora da sciogliere.

L’importanza delle aziende chimiche

Come sottolinea Le Monde Diplomatique, una delle contraddizioni più evidenti che avvolge la Cina riguarda l’industria chimica. Questo settore, sia per l’attività in sé che per i potenziali danni indiretti, è una vera e propria bomba ambientale, anche se parallelamente rappresenta uno dei motori essenziali della crescita cinese.

In particolare preoccupano gli incidenti, sempre più comuni, che coinvolgono aziende del genere. Il 21 marzo scorso, ad esempio, mentre il signor Xi stava iniziando la sua visita in Europa, la Jiangsu Tianjiayi Chemical (Jtc), una fabbrica di prodotti chimici situata a Yancheng, nella provincia dello Jangsu, saltava in aria provocando la morte di 78 persone e il ferimento di altre 566.

Lo stabilimento in questione sorgeva nei pressi di una stazione ferroviaria, era aperto dal 2017 e dava lavoro a 195 persone. Produceva sostanze chimiche tra cui acido m-idrossibenzoico e polimeri termoplastici. Gli abitanti della zona erano preoccupati per l’impatto della produzione su acqua e aria. In effetti i cittadini avevano ben ragione ad esserlo, visto che un’analisi delle autorità locali aveva dimostrato che un corso d’acqua vicino all’azienda era pieno di sostanze tossiche, con concentrazioni 111 volte superiori alle norme nazionali.

Incidenti a catena

Certo, Pechino ha reagito mostrando i muscoli e punendo tanto i funzionari locali dello Jiangsu quanto i dirigenti dell’azienda. Eppure quell’incidente non è stato un caso isolato. Quattro mesi prima della deflagrazione della Jtc, un’esplosione ha coinvolto la ChemChina, impresa statale produttrice di cloruro di vinile attiva a Zhangjiakou, nello Hebei. Il bilancio, in questo caso, è di 23 morti.

Proseguiamo a ritroso: il 19 luglio 2018 è la volta del complesso Hangda Technology di Yibin, nel Sichuan. Modalità analoghe e 19 vittime. Il 12 agosto 2015, con 173 morti e più di 800 feriti, una serie di deflagrazioni ha colpito la città portuale di Tianjin: tutto era partito dall’esplosione di una nave carica di esplosivi.

Insomma, le aziende chimiche, per via dell’urbanizzazione galoppante, sono state inglobate dalle città; molte operano in aree residenziali, con tutti i rischi del caso connessi. E meno male che una regola del 2001 prevedeva che i siti fossero distanti almeno mille metri dagli spazi pubblici. Sette anni dopo, un rapporto ufficiale dei servizi antincendio aveva definito quel regolamento irrealistico e difficile da far rispettare.

I rischi sono tuttavia reali, visto che Greenpeace, per il periodo compreso tra il gennaio e l’agosto 2016, aveva registrato un incidente chimico al giorno, con 199 morti e 400 feriti. Senza considerare che la stessa ong dichiarava nel 2017 che “l’85% delle acque dei fiumi di Shanghai non erano adatte alla balneazione, né a usi industriali, mentre il 60% inadatto a qualunque uso umano”.

Nel frattempo, aggiungeva l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il 92% della popolazione cinese respirava per oltre 120 ore all’anno un’aria malsana mentre l’inquinamento atmosferico provocava la morte prematura di 1,6 milioni di cinesi all’anno. Oggi le norme sembrerebbero essere più stringenti ma le aziende chimiche – e la corruzione di molti funzionari e dirigenti locali – continuano a fare il bello e il cattivo tempo della Cina.





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