Il ritmo del disboscamento in Brasile, da gennaio a luglio, è aumentato del 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. In Amazzonia, per intenderci, sparisce un equivalente di tre campi di calcio al minuto. Il 63% della foresta si trova sul suolo brasiliano; il resto è ripartito fra altri 9 Stati: Perù, Bolivia, Colombia, Venezuela, Ecuador, Guyana, Guyana Francese e Suriname. L’umidità presente condiziona il clima dagli Stati Uniti all’Argentina. Le piogge permettono l’esistenza di grandi fiumi determinanti per l’economia dell’intero continente. L’acqua del bacino alimenta le Ande a nord e influenza la calotta dei ghiacci del polo sud. La sua capacità di assorbimento del gas serra ne fa un regolatore su scala terrestre, oltre a essere un santuario della biodiversità, con 16 mila specie di alberi e piante e 2.5 milioni di insetti.
In Brasile, la pressione antropica sull’Amazzonia non si è mai fermata. Il nefasto precedente della riduzione al 10% del bosco atlantico, per l’avanzata della produzione del cacao e del caffè nel XIX e XX secolo, ha spinto alla creazione, nel 1988, di un programma di controllo satellitare, e all’attivazione di politiche per la sua salvaguardia, nel 1992. Nonostante ciò, i trafficanti di legname sono arrivati a controllare vaste fette di territorio, la coltura intensiva della soia transgenica si è ampliata a un ritmo sostenuto, e l’estrazione mineraria ha ottenuto e rinnovato concessioni, con l’appoggio di tutti i governi che si sono succeduti. Senza l’intervento dei gruppi ambientalisti, e la resistenza dei 300 popoli originari che la abitano, la foresta amazzonica sarebbe sparita nel giro di un paio di generazioni.
La nuova amministrazione ha allentato i controlli in maniera deliberata, diminuiti del 70% in rapporto al 2018, dando inizio a un’era di depredazione, che azzera gli sforzi sinora sostenuti. In aggiunta, Jair Bolsonaro si è profuso in accuse di una presunta psicosi climatica e ambientalista. L’ultradestra, sostenuta dal presidente, fomenta inoltre pericolose tensioni sociali, contestando il diritto sancito dall’articolo 231 della costituzione della repubblica del 1988 all’uso esclusivo di territori ancestrali. Nel tempo è stata conseguita la regolarizzazione di 567 terre di questo tipo per un’estensione di 117 milioni di ettari, con appositi decreti che possono essere firmati solo dal presidente della repubblica, altre 115 sono allo studio della Fondazione Nazionale del Indio (Funai per la sigla in portoghese). Molte altre non sono tutelate e la costruzione delle strade transamazzoniche le spacca, favorendo la penetrazione dei bianchi, mentre gli indigeni reclamano la demarcazione ad area continua, in conformità al principio di salvaguardia etnica.
Nella retorica governativa, l’agricoltura massiva e lo sfruttamento del sottosuolo sono la chiave per disincagliare l’economia. Per tale ragione, come spiega Carlos Macedo, esperto indigenista, a lungo collaboratore delle maggiori istituzioni nazionali e regionali, “si è prima provato a migrare la responsabilità della delimitazione di questi territori dalla Funai al ministero dell’agricoltura, il cui titolare è affiliato alla lobby agro-industriale, noto per posizioni discriminatorie riguardo agli indigeni, e quando lo stato di diritto non lo ha permesso, l’esecutivo ha posto un blocco alla loro registrazione nel catasto e di conseguenza all’applicazione dei diritti giuridici dei soggetti autoctoni. In un tentativo di ristrutturazione, la Funai è stata poi trasferita dal dicastero di giustizia a quello dei diritti umani, a carico di una ministra che si è spacciata per avvocato ed è sotto inchiesta per incitazione al razzismo”. “Quello che ha allarmato la base indigena”, aggiunge Macedo, “sono i progetti di legge 187 e 343 disegnati per modificare la costituzione, togliere alla supervisione della Funai un 50 per cento di terre identificate come indigene e permetterne l’affitto e la gestione da parte di investitori del business agro-forestale ed estrattivo. Le risorse dell’Amazzonia sono state tutte mappate e si stimano 86 miliardi di tonnellate di depositi di carbone, oltre a oro e diamanti. Il saccheggio è stato fermato proprio dalle demarcazioni”.
All’indomani della sua elezione, Bolsonaro aveva annunciato l’intenzione di avviare esplorazioni nella ricca Raposa Serra do Sol, certificata dalla Funai nel 1990, delimitata dal governo di Cardoso nel 1995-2003, e omologata come zona protetta dal presidente Lula nel 2005, al finale di un iter di quindici anni e una lotta indigena molto più lunga. Aveva anche designato la segreteria per i fondi agricoli e l’istituto nazionale di riforma agraria, dirette da impresari brasiliani, al coordinamento ed esecuzione delle decisioni del governo sulle terre indigene.
I toni di questo discorso pubblico, e le sue chiare intenzioni, istigano e giustificano invasioni rabbiose ed espropri illeciti, e hanno condotto alla morte di un capo wajapi, e l’intimidazione e il ferimento di altri attivisti di cui ogni giorno vengono riportate notizie, in un clima di crescente isolamento delle popolazioni originarie. Emyra Wajâpi, che guidava quaranta comunità, è stato con probabilità torturato e affogato da una squadra di garimpeiros – cercatori di pietre preziose che incursionano in aree protette. “Gli aborigeni amazzonici”, continua Carlos Macedo, “rappresentano micro-società vulnerabili su cui si esercitano forti sollecitazioni culturali ed economiche. Si tratta di piccoli gruppi da punto di vista demografico, e oltremodo sparsi da quello geografico, in confronto ai territori che dovrebbero poter controllare, quando aggressori e occupanti hanno equipaggiamento militare e nessuno scrupolo. Sono, oltre al resto, oggetto di strumentalizzazione politica su molteplici versanti. In preparazione alla votazione dei progetti di legge, il governo ha cercato di captare per via mediatica alcuni leader comunitari e così dividerli”.
Gli indigeni del Brasile sono in fermento. Alcuni villaggi si stanno armando per difendersi dagli attacchi
“La situazione provocata dal governo”, afferma Macedo, “è simile a quanto già accaduto nel Mato Grosso, dove si sono esacerbati gli scontri per questioni legate all’accesso e la proprietà della terra e da anni è in atto un conflitto sanguinoso tra agricoltori poveri autoctoni e latifondisti bianchi padroni di fazendas impiantate su aree tradizionali”. La marcha de las margaritas, manifestazione delle donne rurali del Brasile, alla sua sesta edizione, in omaggio alle contadine vittime di violenza, il 13 agosto ha assunto le dimensioni di una sollevazione anti-governativa di rilevanza nazionale. Con lo slogan Territorio: nuestro cuerpo, nuestro espíritu, donne aborigene di 25 Stati si sono unite alla marcia per rivendicare il rispetto dell’identità dei popoli di appartenenza, denunciare “l’agenda distruttiva del governo di Bolsonaro”, e inoltrare una petizione formale a membri del parlamento. Le manifestazioni sono continuate tutta la settimana con la partecipazione di vari attori della società civile.
Il 21 agosto, una delegazione mista di 40 attivisti ha piantonato l’aula dove i progetti di legge 187 e 343 erano in discussione, dopo che la data della votazione era stata rimandata su richiesta di deputati di popoli originari e dell’opposizione, grazie a intense negoziazioni dal lato indigeno. Al termine di una riunione di sei ore, nella quale ha partecipato la commissione costituzionale, e al grido di “Si alla demarcazione, no all’esplorazione!”, è stato raggiunto un accordo sull’inammissibilità e l’abrogazione della clausola della facoltà dello stato di affittare territori ancestrali, che sarà presentato nella sessione del parlamento prevista per il 27. “Abbiamo guadagnato un po’ di tempo per respirare”, ha detto alla stampa locale la congressista indigena Joênia Wapichana. “Sappiamo bene che non ci lasceranno in pace, ma la lotta continua”.
Infatti, l’Amazzonia brucia. Organizzazioni indigene e ambientaliste dell’Ecuador, dove lo stato ha attivato il programma Amazonía sin fuego, stanno dimostrando davanti all’ambasciata e i consolati brasiliani per gli incendi, 40 mila dall’inizio dell’anno, con un incremento dell’80 per cento in comparazione con il 2018, e più di venti giorni ininterrotti di fiamme, che stanno devastando la foresta e minacciando villaggi. Questi vengono causati da agenti della catena agroalimentare, che aprono spazi per il pascolo e il coltivo di soia, riso e canna da zucchero nel fitto della vegetazione, o da speculatori che intendono occupare illegalmente terre da rivendere a caro prezzo. La deforestazione in tutti i paesi della conca Amazzonica, non solo in Brasile, ha raggiunto la grandezza della Francia, ma è possibile preservarne il rimanente 80 per cento, se le azioni sono rapide e non regressive come in Brasile.
“Le relazioni fra i paesi amazzonici sono molto sensibili”, continua Macedo. “Hanno uno scarso capitale negoziale l’uno con l’altro. Se mi chiede quali sinergie si dovrebbero stimolare, aldilà di quelle regionali, e quelle istituzionali, come l’organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica, il coordinamento dei popoli indigeni del bacino amazzonico e il foro permanente dei popoli indigeni, quello che io vedo è una concentrazione di potere fattuale negli Stati Uniti, in Cina, in Giappone, e in Europa. Un boicottaggio dei prodotti che esporta il Brasile sarebbe l’unico modo di invertire il trend. Avrebbe potuto essere una proposta per il G7”.
L’accento dell’opinione pubblica e la stampa internazionale, in merito alla distruzione dell’Amazzonia, in questi giorni è posto sulla biodiversità e il clima. Tuttavia, questa è in primo luogo la casa di individui, famiglie e comunità, che hanno il diritto a preservare il proprio stile di vita e la propria esperienza del mondo. Molti indigeni del Brasile non sono ancora stati contattati: si conoscono per ricognizioni aree e sono circondati da cordoni sanitari. Vivono come pescatori e raccoglitori, con un sapere immenso del proprio intorno naturale. Dei 3 mila frutti che si stima crescano nella foresta, i popoli autoctoni ne sanno impiegare almeno 2 mila dall’alimentazione alla medicina.
In cambio, le emissioni di monossido di carbonio degli incendi generano gravi malattie respiratorie, se non la morte, degli abitanti amazzonici. Le estrazioni minerarie di manganese, ferro e rame contaminano le acque di mercurio, minacciando i mezzi di sussistenza e la riproduzione fisica e culturale. Lo sfruttamento incontrollato forestale e idrico della foresta, così come il bracconaggio e l’espansione della frontiera agricola, sottraggono loro territorio e ne depauperano le risorse. La progressiva militarizzazione e la crescita esponenziale di abusi di autorità, stupri, prostituzione e alcolismo, ne pone a rischio la sicurezza e la sopravvivenza. La povertà non esiste fra i popoli autoctoni, è il contatto con il nostro sistema economico che li rende tali, finendo per innescare un genocidio.