La crisi idrica italiana ha riacceso i fari sul problema globale dell’accesso all’acqua, sfida ambientale, economica e geopolitica fondamentale che persiste da tempo e travalica i confini del nostro Paese. In una fase di caos dei rapporti economici e politici su scala globale e di acutizzazione dei cambiamenti climatici, l’acqua è non solo metaforicamente un tema vitale per le relazioni internazionali. L’acqua, risorsa indispensabile per la vita, diventerà l’oro blu conteso nelle guerre del XXI secolo? Per capire la questione ne parliamo in maniera approfondita con Alessandro Mauceri, studioso del tema, segretario nazionale della Scuola Nazionale d’Ambiente e autore del saggio “Guerra all’acqua”.
La partita dell’acqua si sta facendo sempre più complessa per l’Italia. Quali sono le ragioni profonde della nostra crisi idrica?
Le cause della crisi idrica di cui si parla in Italia sono tante. Anzi, forse sarebbe più corretto parlare di diverse crisi accomunate da un elemento comune: l’acqua. Mi spiego meglio. C’è una crisi legata ai cambiamenti climatici e ambientali. L’innalzamento delle temperature medie causa fenomeni di siccità diffusa e di desertificazione in vaste aree del territorio nazionale. Ma non si tratta di un fenomeno nuovo: se ne parla da tantissimi anni, come scrivevamo già nel 2016 nel nostro saggio. A questo si aggiungono i disagi causati da politiche e comportamenti sbagliati. Negli ultimi decenni non si è fatto molto per garantire la disponibilità di questa risorsa essenziale per la vita (basti pensare che l’acqua è la prima cosa che si cerca quando si esplora un nuovo pianeta per vedere se c’è vita). Nè sono stati approntati e messi in atto piani per far fronte alle eventuali emergenze.
A che tipo di emergenze si riferisce?
“Crisi idrica non è solo siccità o mancanza di acqua. Sono anche eventi improvvisi e violenti con precipitazioni copiose e inondazioni. Anche in questo ambito, si sarebbe potuto fare molto di più (si pensi alla cementificazione selvaggia delle città e al mancato rispetto di norme come quella che prevede l’obbligo per i comuni sopra i 15mila abitanti di piantare un certo numero di alberi di alto fusto ogni anno: più alberi significherebbe, tra l’altro riduzione delle temperature, e quindi minore evaporazione, e una maggiore capacità del suolo di far fronte a precipitazioni copiose). A questo si aggiungono altri fattori di cui non si parla mai. Come l’impronta idrica: abitudini alimentari e comportamentali più sostenibili consentirebbero di ridurre drasticamente il fabbisogno di acqua virtuale pro capite per anno”.
L’Italia, dunque, è in una situazione preoccupante. Ma com’è lo stato dell’arte in Europa?
“Purtroppo in Europa la situazione non è molto migliore di quella italiana. Alcuni paesi si trovano in condizioni simili alle nostre (si pensi alla Spagna o alla Grecia). In altri paesi si registrano elevate perdite nelle condotte idriche (anche se non ai livelli italiani dove le perdite in alcune città hanno raggiunto e superato il 50%). Alcuni paesi non hanno ancora sentito gli effetti di questi cambiamenti non solo perché più a nord (con precipitazioni maggiori e bacini idrici ben più cospicui); anche qui, però, i cambiamenti ambientali si stanno facendo sentire. In questo caso sono importanti altri aspetti sempre legati all’acqua. Lo scorso anno, ad esempio, vaste zone della Germania sono state colpite da inondazioni che hanno causato enormi danni. Danni che sarebbe stato possibile evitare (o almeno ridurre) se fossero state attuate le misure di emergenza previste dalle Nazioni Unite, che indicano le iniziative da adottare per prevenire casi come questi, ma anche per fronteggiare le emergenze. Purtroppo nessuno aveva preso in seria considerazione questa possibilità. E gli effetti causati dall’acqua sono stati catastrofici”.
La sfida dell’acqua, dunque, assume prospettive sempre più ampie se guardata come partita internazionale. E l’Europa è solo la punta dell’iceberg. Sono veri gli allarmi di chi definisce l’acqua un vero e proprio “oro azzurro” destinato a essere conteso?
“Per comprendere questo problema basta considerare un paio di dati: la popolazione mondiale sta aumentando, ma le risorse di acqua potabile (facilmente) disponibili stanno diminuendo. Questo significa che la quantità di acqua dolce disponibile per persona al giorno si riduce sempre di più, anno dopo anno. Ancora una volta non è un fenomeno nuovo. Già nel 2007, il Segretario Generale delle Nazioni Unite parlò della necessità di considerare l’accesso all’acqua potabile tra i “diritti umani”, un diritto uguale per tutti, senza discriminazioni, di poter accedere ad una sufficiente quantità di acqua potabile per uso personale e domestico – per bere, lavarsi, lavare i vestiti, cucinare e pulire se stessi e la casa – allo scopo di migliorare la qualità della vita e la salute. Questo diritto venne ribadito in una Risoluzione delle Nazioni Unite del 28 luglio 2010. dove venne riconosciuto il diritto all’acqua come un diritto umano universale. Questa presa di posizione non fu sufficiente. Ancora oggi, miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile. E nei paesi “ricchi” si sprecano milioni e milioni di metri cubi di acqua al giorno. Ma non basta. Esiste il rischio che l’acqua non sia più un “diritto umano” ma possa diventare merce di scambio quotata in borsa”.
Le “guerre per l’acqua”, in questo contesto, sembrano essere già una realtà. Cosa le determina?
“Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, solo pochissime delle grandi riserve di acqua dolce si trovano all’interno dei confini di un singolo stato. Tutte le altre sono “condivise” tra due o più stati. Questo, però, significa che i relativi governi devono imparare a condividerle. Ma questo non avviene quasi mai. Alla fine, le politiche di gestione dell’acqua di un paese quasi sempre influenzano i rapporti con i paesi vicini”.
Quali sono gli scenari più caldi?
“Primo fra tutti, il Nilo. Da sempre, il Nilo è fondamentale per l’economia e la stessa sopravvivenza dell’Egitto e dei suoi abitanti. Ebbene, prima di arrivare in Egitto, questo fiume attraversa altri paesi. Quando alcuni di questi hanno deciso di utilizzare più cospicuamente queste acque (ad esempio, l’Etiopia che ha costruito una diga per produrre energia idroelettrica per il proprio fabbisogno), per poco non è scoppiata una guerra. Altro scenario di guerra simile si è verificato tra israeliani e palestinesi nella striscia di Gaza: il razionamento delle risorse idriche ai palestinesi sono visti da molti come un’arma. Lo stesso vale per la Turchia e le acque dirette in molti paesi vicini. Ciò che sorprende è che questa “condivisione” (che, come dicevamo, riguarda la maggior parte dei paesi del pianeta) non è stata ancora normata in modo opportuno. In altri casi, poi, non è la riduzione della quantità di acqua dolce ma il peggioramento della qualità a causare scontri: in alcuni paesi del Sud America la gestione abusiva e scorretta delle acque di alcuni fiumi produce danni non indifferenti alla salute delle popolazioni che vivono più a valle”.
La finanziarizzazione dell’acqua e delle imprese che governano le infrastrutture per la sua distribuzione sono un altro problema molto discusso. Come riportare l’acqua ad essere un bene comune garantito?
“Il tema dell’acqua bene pubblico è un tema tremendamente complesso e, tanto per cambiare, di difficile soluzione. Nonostante da tempo pare essere ormai definitivamente riconosciuta l’importanza dell’acqua come “diritto umano” e “bene pubblico” fondamentale per la sopravvivenza (come l’aria), c’è chi sostiene che, in realtà, il concetto di “pubblico” andrebbe limitato solo ad una certa “quantità” di acqua per persona al giorno. Tutto il resto dovrebbe diventare un bene vendibile. Ed essere messo sul mercato. Una forzatura inaccettabile. Ma che potrebbe diventare realtà prima di quanto si pensi. A ottobre 2018, Chicago Mercantile Exchange (CME Group, la più grande piazza finanziaria dei contratti a termine del mondo) e West Water Research, in collaborazione con il Nasdaq, hanno lanciato il Nasdaq Veles California Water Index (NQH2O), il primo “future” sull’acqua. Una sorta di derivato (una scommessa sul prezzo di acquisto di una determinata quantità di un bene entro una scadenza prefissata) presentato come strumento di “risk management” per aiutare municipalità, aziende agricole e imprese industriali a proteggersi dai rischi economici legati alle carenze idriche. Ma sono molti quelli che pensano che si tratti solo di mere speculazioni borsistiche”.
Quali sono i rischi associati a questo processo? Si rischia di perdere il ruolo dell’acqua come bene pubblico?
“Il rischio non è solo la privatizzazione dell’acqua ma anche che i costi del bene possano lievitare a dismisura. È quanto già accaduto con altri per beni primari (mais, soia, riso e grano). Due anni fa, nel World Water Development Report (WWDR 2020) intitolato “Acqua e cambiamenti climatici”, l’UNESCO mise in evidenza la necessità di aiutare le comunità ad affrontare le sfide del cambiamento climatico e informare la gente dei cambiamenti in atto concentrandosi sulle opportunità che una migliore gestione dell’acqua potrebbe offrire in termini di adattamento e mitigazione. I media dedicarono poca attenzione a questo tema. Pochi si presero la briga di approfondire quali sarebbero state le sfide, le opportunità e le potenziali risposte ai cambiamenti climatici migliorando la gestione delle risorse idriche. Le conseguenze le stiamo vivendo oggi”.
Conseguenze molto gravi: la partita dell’acqua entra in una vera e propria tempesta perfetta. Crisi alimentare, crisi energetica, crisi idrica: quanto c’entra il modello dominante di gestione delle risorse nella sovrapposizione tra queste problematiche?
“É fondamentale. Sono tutti problemi strettissimamente legati tra loro. Maggiori emissioni di CO2 comportano un innalzamento delle temperature medie del pianeta, questo comporta minore disponibilità di risorse idriche utilizzabili e, al tempo stesso, un aumento dei consumi di energia elettrica che (essendo prodotta principalmente da fonti energetiche fossili) causa aumento delle emissioni e di nuovo aumento delle temperature. A questo si aggiungono altri fenomeni non meno importanti: un consumo eccessivo di carni rosse (assolutamente non giustificato dal punto di vista alimentare) spinge alcuni paesi ad abbattere porzioni sempre maggiori di foresta amazzonica. Questa deforestazione (in un processo abbastanza lungo da spiegare – ci riserviamo di riparlarne in un altro momento) causa un aumento della CO2 e delle emissioni di metano, ma anche una desertificazione delle aree un tempo foreste sfruttate in modo incosciente. A questo si aggiunge che questi allevamenti causano un danno enorme alle riserve idriche locali: l’impronta idrica contenuta nelle carni rosse è in assoluto la maggiore”.
Parliamo di uno scenario decisamente critico. Come ne possiamo uscire?
“Per spezzare questi rapporti di causa ed effetto sarebbero necessari interventi radicali e decisioni forti a livello globale. Cambiamenti negli stili di vita (a dicembre 2021, il premier Draghi rispondendo ad un giornalista ha chiesto se preferisse la Pace o il condizionatore d’aria per l’estate. Non so gli altri italiani ma noi avremmo preferito la Pace). Sono tantissimi i temi legati direttamente o indirettamente all’acqua (perché nessuno parla di watergrabbing e di landgrabbing? E perché nessuno parla di “compensazione delle emissioni”?). Argomenti di cui nemmeno le varie COP (Conferenze delle Parti) degli ultimi decenni sono mai riuscite a tradurre in impegni vincolanti per i governi. É necessario fermare lo sfruttamento irrazionale delle risorse a disposizione. A cominciare dall’acqua. Ridurre il consumismo sfrenato, a livello locale e a livello globale. Ma soprattutto capire che di Terra ce n’è una sola. E che l’acqua sulla Terra non è infinita. Inutile riempire discorsi e leggi nazionali e internazionali di belle parole come “sostenibilità” e “resilienza” se poi, nella realtà si fa l’esatto opposto”.