La decisione del presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump di ritirare il suo Paese dall’accordo di Parigi del 2015 ha riaperto la discussione sulla lotta ali cambiamenti climatici, a cui l’amministrazione di Washington ha deciso di abdicare ma che rimane una priorità importante nella traiettoria di sviluppo della Repubblica Popolare Cinese.

Sembrano oramai lontani i giorni in cui, al G20 di Hangzhou di settembre 2016, il presidente cinese Xi Jinping e l’omologo statunitense Barack Obama annunciarono congiuntamente l’adesione all’accordo di Parigi e il rafforzamento di un percorso di confronto sui cambiamenti climatici sempre più attivo dal 2014 in avanti, come segnalato da Mario Del Pero nel suo saggio Era Obama.





Il defilamento degli Stati Uniti responsabilizza la Cina, principale Paese al mondo per emissioni di gas serra ma, al tempo stesso, capofila nella definizione di piani di investimento per operare una transizione energetica funzionale, tra le altre cose, allo sviluppo dei grandi progetti ad ampio raggio della Repubblica Popolare, prima tra tutti la Belt and Road Initiative che fa dello sviluppo sostenibile e inclusivo uno dei suoi capisaldi.

Il tredicesimo Piano Quinquennale della Repubblica Popolare Cinese (2016-2020) è caratterizzato da una forte valorizzazione del ruolo delle fonti rinnovabili nella generazione energetica funzionale all’approvvigionamento di metropoli sempre più in espansione e di distretti industriali che stanno progressivamente orientando la loro capacità produttiva al servizio dei consumi della classe media nazionale.

Come segnala Asia Timesattraverso l’operato della National Energy Administration (NEA)il governo di Xi Jinping sta inoltre progressivamente riducendo il suo impegno nella disfunzionale e scarsamente produttiva industria del carbone, puntando a eliminare oltre 800 milioni di tonnellate di produzione attraverso la chiusura di numerose imprese e cooperative attive nel settore.

La Cina all’avanguardia sulle rinnovabili

Al tempo stesso, il crescente fabbisogno energetico cinese e il parallelo calo del costo medio di produzione di numerose fonti rinnovabili hanno portato al lancio di una vera e propria rivoluzione, che si inserisce sul solco di una politica sviluppata da tempo dalla Repubblica Popolare, che già nel 2013, con 378 GW, aveva una produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili doppia rispetto agli Stati Uniti.

Recentemente, la Cina ha superato l’obiettivo di 105 GW annui prodotti attraverso il solare, il cui raggiungimento previsto per il 2020 è avvenuto nel mese di novembre 2017. Tutto concorre a ritenere possibile che possa essere anche anticipato l’obiettivo di raggiungere il picco di emissioni di gas serra da parte della Cina per il 2030: la Banca Mondiale ha segnalato che la Cina, tra il 1980 e il 2010, ha ridotto del 70% l’impiego di energia per il conseguimento di ciascuna unità di crescita del PIL, e potrebbe ottenere un’ulteriore riduzione del 15% entro il 2020.

Gli investimenti cinesi nelle rinnovabili potrebbero garantire ritorni importanti nella lotta ai cambiamenti climatici. Come scritto da Jiang Kejun e Jonatan Woetzel su Project Syndacate “La Cina sta investendo 100 miliardi di dollari nelle energie rinnovabili ogni anno […] e 32 miliardi di dollari in altri Paesi. La Grid Corporation, controllata dal governo, prevede di costruire una rete mondiale basata su turbine eoliche e pannelli solari. […] Il fatto che la Cina sia la principale fonte di domanda energetica e tecnologia in grado di abbattere il prezzo delle energie rinnovabili le sta offrendo un’opportunità unica per acquisire la leadership mondiale” nella lotta ai cambiamenti climatici.

Ma il governo cinese è pronto ad assumersi questa responsabilità di primaria grandezza?

La Cina, leader riluttante nella lotta ai cambiamenti climatici

Per quanto i dati suggeriscano una supremazia cinese sul tema della sostenibilità energetica, il capo negoziatore di Pechino sul clima Xie Zhenhua ha recentemente smentito la volontà del Paese di porsi alla guida del processo di lotta ai cambiamenti climatici, mentre Xi Jinping, intervenendo al Congresso del Partito Comunista, ha rivendicato per il Paese il ruolo di “portatore della fiaccola” e non di “guida” in questo processo.

La Cina si configura come un “leader riluttante” nella lotta ai cambiamenti climatici, che potrebbe rappresentare per il Paese un’occasione per sviluppare enormemente il suo soft power in una fase che lo vede proiettato in maniera sempre più intensa nei principali scenari geopolitici planetari. Il motivo della riluttanza di Pechino sta, fondamentalmente, nello stile stesso della diplomazia e del sistema di governo cinese.

Guidata da una leadership fortemente pragmatica, la Cina preferisce costruire il suo percorso sulla base di fatti concreti: investimenti, accordi commerciali, piani di sviluppo. Tuttavia, le ragioni della politica di potenza potrebbero, in futuro, portare a una valorizzazione dell’elemento morale insito nella guida della lotta ai cambiamenti climatici.

Come segnalato da Zhang Chao su The Diplomatinfatti, per la Cina l’assunzione esplicita della leadership nella lotta ai cambiamenti climatici rappresenterebbe un’occasione “per migliorare il suo prestigio. I cambiamenti climatici rappresentano probabilmente la più grande sfida mai affrontata dall’umanità. Una leadership su questo terreno potrebbe rafforzare la Cina sul terreno “morale” […] e migliorare la sua immagine internazionale. […] Pechino dovrebbe riconoscere che assumendo tale leadership porterebbe benefici non solo al mondo ma anche alla Cina stessa”.

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