Come se non fosse sufficiente la piaga del Covid-19, l’India in questi mesi affronta una serie di innumerevoli crisi esterne ed interne. La protesta degli agricoltori è una di queste e nemmeno l’emergenza delle ultime settimane sembra placare rivendicazioni e proteste. Ciò che è ben più grave nella vicenda è la crisi idrica che sta dietro alla rivolta dei farmers. Pur essendo il secondo produttore di generi alimentari nel mondo dopo la Cina, il Paese possiede solo il 4% dell’acqua mondiale, ed è per questo che è sempre stato campione in fatto di costruzione di dighe, estrazione e deviazione delle acque, fin dai tempi della dominazione britannica.
L’India ha anche un altro primato: è il più grande esportatore di riso al mondo; si stima, infatti, che nel triennio 2015-2018 le esportazioni abbiano raggiunto quota 10/12 milioni di tonnellate. Ed è proprio la coltivazione estensiva del riso, che richiede un’enorme quantità d’acqua, a essere divenuta la grande maledizione dei contadini: il governo ne ha sovvenzionato e incentivato a lungo la coltivazione nel nord, ma tali colture ad alta intensità idrica hanno drasticamente abbassato la falda freatica.
La fame d’acqua
Il buon senso suggerirebbe di puntare a colture che richiedono meno acqua, ma New Delhi sembra voler andare nella direzione opposta. Più di 5.000 litri di acqua servono per produrre un chilo di riso ed è evidente che, a cascata, il problema dell’eccessivo pompaggio nelle risaie del nord si ramifica in tutto il resto del Paese. Il Central Ground Water Board, che valuta ogni cinque anni lo stato delle acque in tutti gli Stati della Federazione, da almeno dieci anni lancia l’allarme sull’allargamento della fetta dei bacini iper sfruttati.
Haryana e Punjab sono gli Stati più colpiti, ovviamente, e rischiano di trasformarsi in deserti aridi entro 25 anni se non si pone freno all’eccessivo prelievo dagli acquiferi sotterranei. È un sistema drogato, che costringe i contadini a una perenne fame d’acqua: per alimentarla serve scavare pozzi, acquistare tubature e macchinari. E tutto questo costa e costringe le famiglie a indebitarsi. Molti preferiscono o sono costretti a dare in affitto le loro terre, ma i terreni sprovvisti di pozzi agricoli valgono la metà di quelli attrezzati, e questo penalizza chi non possiede risparmi.
Una lunga storia di errori idrici
Il Punjab (detto anche terra dei cinque fiumi) conosce bene il problema dell’acqua, infatti a fine Ottocento, grazie alla grande capacità ingegneristica, si trasformò da steppa desertica in un mosaico di colonie canalizzate, ossia campi di frumento con relativi insediamenti agricoli. Un sistema che venne esteso in maniera massiccia dopo l’indipendenza: gli abitanti del Punjab si trasferirono in massa nelle colonie già dalla fine dell’Ottocento, emarginando i gruppi di pastori ovini e di dromedari. Con questa grande innovazione il Regno Unito si costruì una massa di fedelissimi sudditi, mansueti, talmente tanto da spingerli ad arruolarsi volontari nella Prima Guerra mondiale a servizio di Sua Maestà.
Dopo il 1947, il Punjab venne frazionato tra Pakistan e India e il sistema di irrigazione divenne oggetto di ulteriore contenzioso tra le due nazioni frenemies. Una serie di trattati non riuscì a impedire la salinizzazione, una maledizione piuttosto frequente quando si parla di sistemi di irrigazione. Negli anni Sessanta furono gli Stati Uniti di Kennedy a salvare il Punjab pakistano dal sale (a quel tempo, Washington e Islamabad erano alleate), con una missione tecnica che si occupò specificamente dei problemi della falda freatica. In India, invece, Jawaharlal Nehru si fece promotore della costruzione di decine di dighe a scopi idroelettrici e irrigui, tanto da venerarle come “templi dell’India contemporanea”. I danni furono gravissimi. Le stime raccontano che, tra il 1974 e il 1992, 20 milioni di indiani furono costretti a trasferirsi, il patrimonio forestale venne distrutto (soprattutto in Uttar Pradesh) e sui bacini allagati si abbatté la malaria. Tutto frutto di una politica agricola e idrica scellerata.
La rivoluzione verde
La “rivoluzione verde” fu un programma esportato dal Primo al Terzo Mondo agli inizi degli anni Quaranta: l’obiettivo era diffondere nuovi ceppi a resa elevata di granaglie di largo consumo come frumento, mais ma soprattutto riso. Queste specie erano state selezionate perché rispondevano bene ai fertilizzanti chimici, resistevano ai parassiti e ben si prestavano alla meccanizzazione. La speranza era quella di nutrire una popolazione mondiale (e quindi anche indiana) in crescita esponenziale, sopperendo alle discrasie malthusiane. La scelta della monocultura non fu però vincente: gli agricoltori d’ora in avanti avrebbero dovuto acquistare le sementi invece che usare le proprie e abusare di pesticidi e fertilizzanti. Le grandi quantità d’acqua necessarie hanno creato la proliferazione di dighe gigantesche. Fu una scelta che premiò l’India nelle relazioni internazionali assieme alla Cina, al Messico e alla Corea del Sud: migliorò la sua bilancia dei pagamenti, ridusse la sua dipendenza alimentare (il riso esportato oggi è infatti il suo surplus) e si garantì un ruolo, seppur da non allineato. Decenni dopo, assistiamo agli effetti devastanti di quelle politiche.
Le risaie, dunque, non sono sempre state una coltura domestica dell’Haryana e del Punjab. Fino agli anni Settanta, gli agricoltori qui coltivavano miglio, mais, legumi e semi oleosi. Verso la fine degli anni Sessanta, l’India spinse sulla rivoluzione verde per garantirsi cibo autarchico. All’epoca, l’acqua non era un problema, ma la sicurezza alimentare sì.
Cosa sta accadendo adesso
I nodi alla fine sono venuti al pettine. Se prima ai contadini bastava scavare per pochi piedi per trovare una vena d’acqua, oggi non bastano nemmeno cento piedi per veder zampillare l’oro blu. Negli ultimi due anni, ad esempio, il governo dell’Haryana sta cercando di dissuadere gli agricoltori dal persistere con la risaia. Il governo sta invece promuovendo la piantagione del mais, fornendo semi a basso costo e incentivi economici per chi effettua il cambio di passo. Per tutti quelli che, invece, annaspano tra i debiti, il cambio non è semplice: si opta sempre per ciò che permette di mettere il piatto in tavola. Anche su di loro si fa sentire la scure del cambiamento climatico: le piogge monsoniche, una manna dal cielo per i coltivi indiani, sono divenute imprevedibili, e le estati sempre più calde e la conseguente evaporazione veloce dell’acqua minano la resa delle risaie.
Punjab e Haryana sono stati spremuti come limoni dalle scrivanie di New Delhi in nome della sicurezza alimentare, lasciandoli a secco. Ma soprattutto soli. In un clima politico ed economico così complesso, è arrivata la riforma agraria. Gli agricoltori, soprattutto quelli strozzati dai debiti, temono che le nuove leggi tradiscano l’intento del governo di voler ridurre il suo ruolo in agricoltura, privandoli, ad esempio, dei prezzi garantiti sui raccolti. Ed è così che il riso, che doveva sfamare le genti d’India, ha finito per assetarle.