Alla fine, della conferenza mondiale sul clima di Madrid (il cosiddetto Cop25) resterà come ricordo solo l’inquinamento causato dalla necessità di trasportare nella capitale spagnola i delegati della tavola rotonda.

A risultare impossibile è stata l’impresa di mettere d’accordo oltre 190 Paesi sul tema della revisione degli Accordi di Parigi del 2015. Era stata infatti ipotizzata una riforma che permettesse di evolvere l’articolo 6 degli accordi, definendo strumenti di regolazione globale del mercato del carbonio, così da consentire un maggior equilibrio nelle emissioni tra Paesi industriali e Stati più vulnerabili, ma i veti incrociati tra i membri hanno portato all’affossamento di tale prospettiva.

Paesi come Stati Uniti, la Cina, l’India, il Brasile, l’Australia e il Giappone hanno opposto le loro critiche alla revisione e all’introduzione di meccanismi finanziari di compensazione per i Paesi che risultano vittima dell’inquinamento. Immediata la reazione degli attivisti pro-clima, guidati dalla giovane svedese Greta Thunberg, fresca della nomina a “persona dell’anno” di Time. 

“Sembra che la Cop 25 stia fallendo proprio ora. – ha twittato Greta Thunberg nella notte – La scienza è chiara, ma viene ignorata. Qualunque cosa accada, non ci arrenderemo mai. Abbiamo appena iniziato”. Criticissima anche Greenpeaceche parla di “esito inaccettabile”. Attivismo contro politica, una volta di più. I leader mondiali vengono messi sul banco degli imputati, ritenuti incapaci di gestire la questione climatica e di lucrarci sopra cinicamente. Non si tratta di accuse del tutto infondate, sia ben chiaro. Però ritenere che il semplice attivismo, specie se declinato in salsa apocalittica, possa provocare un ribaltamento è a dir poco ingenuo.

Si dà eccessiva rilevanza a questi summit internazionali che somigliano a passerelle improvvisate piuttosto che a incontri veramente risolutori. I grandi della Terra possono riunirsi, lanciare allarmi, discutere e prendere impegni, ma in fin dei conti sarà poi compito della vera politica, a livello nazionale o regionale, declinarli in azioni concrete. Possibilmente pragmatiche.

Il fatto stesso che i front-man della battaglia climatica siano attivisti di professione (dai membri di Greenpeace al nuovo fenomeno di Greta) o personalità in vista del mondo dello spettacolo, ovvero soggetti abili più a cavalcare narrazioni e battaglie emozionali che a proporre soluzioni concrete, è poi indicativo. Il Cop25 fallisce perché l’Onu ha seguito Greta, in sostanza. Perché ha assecondato una deriva catastrofista, perché si è voluto fare del tema del carbonio e delle emissioni la questione risolutiva, il Sacro Graal da trovare, senza riflettere sulla necessità di ampliare il campo di vedute.

E dire che spunti sono arrivati in tal senso proprio al Cop25, in cui oltre all’annuncio di un aumento dello scioglimento dei ghiacci in Groenlandia è stata anche dimostrata l’evidenza di una maggiore diminuzione del tasso di ossigenazione degli oceani e comunicata la preoccupazione della sostenibilità dell’accesso idrico per circa un quarto della popolazione mondiale. Problemi troppo ampi per ridurre tutto a una questione di più o meno anidride carbonica nell’atmosfera.

Secondo uno scienziato come Franco Prodi, intervistato da Tempi, sul tema del rapporto lineare tra quantità di gas serra nell’atmosfera ed effetto serra si giunge troppo spesso a conclusioni semplicistiche: “Non si valuta adeguatamente il ruolo concomitante di tutti gli altri gas serra (il vapore acqueo, il metano, l’ozono, l’anidride solforosa) e soprattutto il cosiddetto feed-back, cioè il modo in cui il sistema complesso reagisce ad ogni variazione definita”, del resto non solo atmosferica. Sviluppo demografico, sfruttamento dei terreni, urbanizzazione, sfruttamento degli stock agroalimentari e ittici influenzano in maniera diversificata il clima mondiale, la biodiversità e le catene alimentari su cui si reggono gli ecosistemi.

Insomma, il tema del cambiamento climatico è troppo importante e il problema dell’ambiente troppo esiziale per il futuro del genere umano per ridurre il tutto a semplificazioni di comodo. La sfida chiave è una valutazione delle conseguenze generali, per la Terra, dell’era del cosiddetto Antropocene“Antropocene non è riducibile al cambiamento climatico”, sottolinea su Osservatorio Globalizzazione Pierluigi Fagan. “Non c’è da esser uno scienziato per capire che una popolazione umana quadruplicata in 120 anni, che oggi si organizza ovunque con le modalità dell’economia moderna che è una modalità essenzialmente entropica (massiccio prelievo di energia e materia, produzione di scarti di lavorazione, produzione di scarti dopo l’utilizzo), porta a modificare la stessa casa in cui vivi. La casa, non solo il suo clima”.

Il ragionamento, per usare un termine di settore, andrebbe fatto a livello di filiera e, sull’ambiente, andrebbero posti in essere cambiamenti graduali e pragmatici. Capaci di integrare i nuovi settori più promettenti e “verdi” in maniera tale da preservare, nelle società moderne, tutela occupazionale, equilibri sociali e sicurezza ambientale. Prevenire le cause, piuttosto che mirare solo a gestire le conseguenze con appelli, molto spesso, controproducenti. I grandi summit sul clima molto spesso non vanno in questa direzione.