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L’Amazzonia è da tempo terra di contrasti. E non solo per quanto riguarda la sfera brasiliana. In Ecuador, da fine anni Novanta ad oggi, si consuma una guerra fisica e giuridica tra la popolazione indigena e il governo di Lenín Boltaire Moreno Garcés, sobillato da alcune big del settore petrolifero. Per capirci: è di otto anni fa la scelta dei vertici statali di aprire tre milioni di ettari di Amazzonia alle esplorazioni, in particolare a quelle per mano delle società petrolifere. L’area incontaminata di foresta pluviale primaria, culla di un’incredibile diversità di specie animali e vegetali nonché delle popolazioni indigene, è stata così divisa in 16 “blocchi petroliferi” da vendere in un’asta internazionale, tra cui il blocco 22, dove vivono i Waorani.

Per capire meglio il livore e le ingiustizie subite dalle popolazioni indigene ecuadoregne, però, bisogna fare un passo indietro: il grido indigeno internazionale nasce infatti dalle prime proteste per il Dakota Access, l’oleodotto in costruzione in Nord Dakota che, come da progetto, dovrebbe coprire circa 200 chilometri, trasportando una quantità di petrolio intorno ai 550mila barili giornalieri. Anche per questo motivo, nel 2016 nasce il movimento di resistenza dei nativi americani, guidato dalla tribù dei Sioux e prontamente seguito dai villaggi di Sápara di Llanchamacocha e di Kichwa di Sarayaku, terra delle più antiche comunità indigene, nell’Amazzonia dell’Ecuador.

Originariamente in quella zona vivevano più di 200mila persone e 32 dialetti. Ora sono solo 200 con solo sei persone ancora in vita e parlanti la lingua nativa. L’Unesco ha stabilito per l’area lo status di “Patrimonio Culturale Intangibile” nel 2001, senza per questo riuscire a fermare l’avanzavate delle big petrolifere. La Texaco, società petrolifera americana, ha operato nell’Amazzonia ecuadoregna dal 1964 al 1990, prima della sua unione con Chevron Corporation nel 2001: in quel lasso di tempo, sono stati versati sul territorio 18 bilioni di litri di acque di scarico e 15 milioni di litri di petrolio grezzo. Il risultato? La fanghiglia nera sparsa ha contaminato le falde acquifere, arrivando a inquinare le foci di molti fiumi, idem per flora e fauna, quasi del tutto cancellate, e per gli abitanti delle comunità, le cui pene si sono tradotte in deformazioni e malattie gravi. “Lo scopo principale è quello di entrare ed estrarre petrolio senza rispondere dei danni”, ha spiegato Luis Yanza, presidente della Amazon Defense Coalition. “Di fatto, non c’è stato nessun cambiamento in 30 anni”.

Il governo ecuadoregno, allo stato attuale, continua a svolgere manovre in grado di garantire la prosecuzione delle estrazioni, anche senza averne l’autorità, e rassicurare gli indigeni di una protezione estensiva dei diritti. E mentre per le comunità si va spengendo anche l’ultimo barlume di speranza, i sotterfugi e le alleanze con le aziende petrolifere sono pratiche ormai assodate: nel 2015 il governo ha venduto ad un consorzio cinese l’accesso a parti di terra alla Andes Petroleum, una big della combustione fossile, la quale, come ha affermato Manari Ushigua, Presidente di the Sapara Nation, “è prossima a commettere un genocidio contro la gente di Sapara e contro i nostri vicini isolati”.

La sola nota positiva nel drammatico scenario porta la data maggio 2019: gli indigeni Waorani hanno portato in tribunale il governo dell’Ecuador, che voleva vendere 200mila ettari di Amazzonia all’industria petrolifera, e con una sentenza a sorpresa hanno vinto, creando un precedente storico per i diritti di tutti i popoli indigeni. Non è la prima volta che una corte si pronuncia a favore delle comunità: nel luglio del 2012 era stata proprio la Corte Inter-Americana per i Diritti Umani ha emettere una sentenza con cui stabiliva l’Ecuador responsabile per la violazione del diritto delle popolazioni indigeni. Gli effetti della sentenza non hanno avuto l’impatto desiderato; la speranza, stavolta, è che la storia non si ripeta.

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