Il significato di sicurezza nazionale in salsa cinese è talmente vasto da includere al suo interno ogni dimensione, non solo di natura militare, potenzialmente in grado di mettere a rischio la tenuta del Paese. In Cina, in seguito all’ascesa di Xi Jinping, e di pari passo con l’intensificarsi delle tensioni geopolitiche internazionali, questo concetto ha assunto ulteriore rilevanza raggiungendo il vertice dell’agenda del Partito Comunista Cinese (Pcc).

Basta del resto ascoltare il discorso pronunciato dal presidente cinese, oltre un anno fa, in occasione del XX Congresso del Pcc, quando Xi ha pronunciato la parola sicurezza oltre 90 volte, incrementandone l’utilizzo rispetto alle 50 del 2017 e offuscando altri termini chiave quali riforme economiche e mercato. In seguito allo scoppio della guerra in Ucraina, poi, Pechino ha acceso i riflettori, in particolare, sul settore alimentare.

Il governo cinese, desideroso più che mai di salvaguardare la stabilità politica interna, vuole scongiurare l’ipotesi che la nazione possa (anche solo rischiare) di restare a corto di alimenti chiave, soprattutto quelli – come la carne di maiale – al centro della dieta della sua popolazione. Fenomeni atmosferici estremi, epidemie animali, guerre capaci di interrompere le catene di produzione alimentare, accenni di guerra commerciale: queste sono soltanto alcune delle variabili che Xi intende disinnescare con largo anticipo. In che modo? Provvedendo a rendere la Cina quanto più indipendente possibile da Paesi terzi per quanto riguarda l’alimentazione.

La sicurezza alimentare di Xi

L’obiettivo della Cina non consiste più nel fornire almeno un piatto di riso al giorno alla sua immensa popolazione, che ormai da decenni non soffre più problemi simili, quanto piuttosto smarcarsi da pericolose dipendenze alimentari straniere.

Il punto è che il tasso di autosufficienza alimentare della Cina è diminuito in maniera preoccupante, passando dal 101,8% del 2000 al 76,8% del 2020. In assenza di misure tempestive, si prevede una discesa del valore fino al 65% entro il 2035. In particolare, al netto dei dossier geopolitici, fattori quali la perdita di terra coltivabile, la minore produttività dei semi e i costi più elevati della produzione interna hanno spinto i consumatori cinesi ad optare per gli articoli importati.

Di conseguenza, la Cina è diventata un importatore netto di prodotti alimentari dal 2004. Un tallone d’Achille, questo, che Xi ha cercato di proteggere sin dal 2021 definendo la sicurezza alimentare “una base importante per la sicurezza nazionale” e chiedendo ulteriori sforzi per salvaguardare le coltivazioni nazionali e gli allevamenti, oltre che per proteggere i terreni agricoli al fine di aumentare la produzione interna.

Dai maiali alla soia: gli alimenti chiave del Dragone

In tutto ciò è doveroso ricordare che, con meno del 10% della terra arabile del pianeta a disposizione, la Cina produce un quarto del grano mondiale e nutre un quinto della popolazione mondiale. A luglio, Xi spiegava che più terreni agricoli significano più produzione di grano e meno dipendenza dal grano importato. Osservazioni che fanno eco a quanto dichiarato dallo stesso leader nel dicembre 2013 alla Conferenza centrale sul lavoro rurale: “Le ciotole di riso del popolo cinese devono essere saldamente nelle nostre mani. Le nostre ciotole di riso dovrebbero essere riempite principalmente da colture cinesi”.

Da questo punto di vista, esistono diversi alimenti che possono essere citati per illustrare il problema della Cina. Prendiamo la soia: secondo i dati diffusi dalla dogana cinese a luglio, la Cina ha importato 12,02 milioni di tonnellate di soia a maggio, con un aumento del 24,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, stabilendo un nuovo record per le importazioni mensili. Oltre il 60% del commercio di soia nel mondo è destinato a prendere la strada di Pechino, ha fatto presente l’American Soybean Association. E la soia made in China? Rappresenta meno del 20% del consumo annuo nazionale.

Il valore delle importazioni di cereali e farina di cereali è quadruplicato nel periodo compreso tra il 2013 e il 2021, passando da 5,1 miliardi di dollari a 20,08 miliardi. Allo stesso modo, anche le importazioni cinesi di mais sono cresciute negli ultimi anni, soprattutto nel 2021, quando la Cina ha importato 28,35 milioni di tonnellate di mais, con un aumento del 152% rispetto all’anno precedente. La carne di maiale, i cui prezzi sono uno degli indicatori dell’inflazione alimentare, meriterebbe un capitolo a parte.

Le soluzioni sul tavolo

Per incrementare la produzione di carne di maiale, nel 2019 il Consiglio di Stato cinese ha emesso un decreto costringendo tutti i dipartimenti governativi a sostenere l’industria suinicola, anche mediante aiuti finanziari destinati ad allevamenti su larga scala.

Non a caso, nello stesso anno, Pechino spiegava che avrebbe presto approvato la nascita di allevamenti multipiano in tutto il Paese. Ecco perché in Cina sono nati questi giganteschi edifici colmi di maiali: per creare allevamenti verticali e liberare quanti più terreni possibile da impiegare per la coltivazione di altri alimenti. Ma anche per macellare ancora più maiali, molti dei quali continuano ad essere importanti dall’estero.

Sul tavolo, il Dragone sta adottando almeno altri due rimedi sostanziali per blindare la propria sicurezza alimentare. Il primo coincide con investimenti massicci in tecnologie ultra moderne, tra cui biotecnologie agricole e sistemi agricoli autonomi, intelligenza artificiale. Di recente, la Cina ha annunciato l’intenzione di espandere la sua semina pilota di mais e soia geneticamente modificati (GM) per contribuire a incrementare la produzione interna di queste colture. Il secondo rimedio chiama in causa la creazione di molteplici progetti di cooperazione alimentare all’estero volti a creare nuove rotte di approvvigionamento. Il tempo passa e il Dragone è sempre più affamato.

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