Il mondo sta sperimentando negli ultimi anni una crescente pressione a favore della transizione ecologica ed energetica che non è solo dettata dalla crescita dei sentimenti ambientalisti in diverse nazioni avanzate ma anche e soprattutto legata all’attestazione del fatto che, in prospettiva, l’efficienza energetica e le nuove tecnologie applicate alla generazione possono essere driver di sviluppo economico. Tutela ambientale e progresso economico, lo ripetiamo da tempo, non sono questioni da ritenere separate, ma sono da considerare come complementari.
Ogni grande processo e ogni cambio di paradigma economico nella storia ha prodotto vincitori e vinti, ha sostituito interi comparti economici con altri, ha portato al declino di aree geografiche, città, categorie sociali e all’ascesa di altre. L’ascesa della navigazione a vela favorì gli attraversamenti transatlantici e il declino delle potenze mediterranee come Venezia a favore di quelle atlantiche; tra metà e fine Ottocento il Cile visse un’epopea economica fugace per le esportazioni di due prodotti utilizzati rispettivamente come fertilizzante, il guano, e componente per gli esplosivi, il salnitro, prima di conoscere un altrettanto rapido declino; nel Novecento, Paesi come il Congo hanno visto le loro diverse aree condizionate dalla “maledizione delle risorse”. Ma la transizione energetica in via di dispiegamento guarda più in prospettiva.
In primo luogo, unendo cambi di paradigma sul profilo industriale e delle fonti a un’innovazione tecnologica diffusa e pervasiva, la transizione energetica si dispiega come processo graduale e in perenne divenire, che rende possibile identificare in corso d’opera quali saranno i settori destinati alla dismissione, quali quelli sottoposti a radicale trasformazione e quali quelli prossimi ad emergere.
In secondo luogo, di conseguenza, ogni mossa volta a promuovere una crescita sostenibile dovrà andare di pari passo con l’identificazione delle reti di protezione volte a compensare le perdite di chi lavorerà nei settori in declino, a incentivare il re-skilling dei lavoratori e gli investimenti in transizione energetica diffusa e innovazione. Nella consapevolezza che sostenibilità non può essere solo la riduzione di emissioni e gas serra, ma un miglioramento complessivo delle prospettive di vita delle società umane. E degli uomini intesi sia nella loro accezione di lavoratori che in quella di primi utenti di un sistema economico di riferimento.
In terzo luogo, proprio perché incentrata su una così profonda e radicale modifica dei rapporti tra l’uomo e l’economia, tra l’ambiente e le società avanzate, la transizione non può non porsi il problema della lotta alle disuguaglianze e, per dirla in parole semplici, della messa in evidenza dei vantaggi concreti che le persone, in primis i lavoratori delle fasce a più basso reddito, trarranno dai nuovi paradigmi.
Foreign Affairs ha posto in evidenza una serie di esempi di politiche più o meno virtuose che hanno puntato a interiorizzare questi stimoli o, al contrario, li hanno negati mandando i piani di transizione verso un possibile fallimento. Sul primo fronte si cita l’esempio della Svizzera, Paese in cui le tasse sulle emissioni di anidride carbonica finanziano “uno schema di rimborsi per i cittadini a basso reddito diretto alle assicurazioni sanitarie” o dello Stato canadese della British Columbia che dal 2008 garantisce deduzioni e crediti d’imposta agli “investimenti per rafforzare gli edifici rurali vulnerabili agli eventi climatici” e ad aumentare la sostenibilità delle unità abitative. E in prospettiva andrà valutata la portata del piano del presidente statunitense Joe Biden per inserire la “giustizia ambientale” nel piano infrastrutturale da 2 trilioni di dollari che mira a garantire che i primi beneficiari di un’economia americana più sostenibile, della riduzione degli sprechi e dei costi dell’energia siano gli abitanti delle aree più povere del Paese.
Meno efficaci sono state, in passato, scelte politiche stigmatizzate con la nomea di “ambientalismo per ricchi” come la tassa sul carburante introdotta in Francia nel 2018 che ha scatenato le proteste dei gilet gialli contro Emmanuel Macron. O l’approccio dell’Unione Europea che sino ad ora, nota la testata statunitense, “ha sostenuto programmi di re-training in settori ad alta intensità di emissioni” come quello carbonifero della Polonia ma non ha costruito una strategia olistica per governare in futuro la transizione. Un elemento di vulnerabilità non secondario che rischia di inficiare notevolmente il piano climatico Fit for 55.
I ministri italiani Giancarlo Giorgetti e Roberto Cingolani, tra i più attenti fautori di un ambientalismo realista, da tempo del resto invitano a coniugare pragmatismo industriale e produttivo e strategie per la transizione. Una nazione come l’Italia, superpotenza in pectore delle tecnologie per le rinnovabili, sta superando solo in questi mesi il dominio culturale e politico dell’ambientalismo più radicale e scoprendo le potenzialità della scelta di mettere al servizio del progresso la transizione e la ricerca di nuove fonti energetiche meno impattanti. Perché alla prova dei fatti nulla si potrà dire di realizzato nella transizione se non si darà un futuro ai lavoratori del settore dell’automotive tradizionale, ai minatori, ai dipendenti di fonderie, acciaierie, centrali a carbone, ai trasportatori, ai dipendenti dell’indotto di questi settori e a tutti gli altri uomini e le altre donne potenzialmente destinati a perdere il loro posto di lavoro nei prossimi anni e decenni per l’avanzata della transizione. Cingolani invita, in particolare, da tempo la politica a non trasformare la transizione energetica in un bagno di sangue. Il lavoro e la lotta alle disuguaglianze, vecchie e nuove, che la transizione potrebbe creare devono essere la stella polare della politica in questa partita decisiva.