Da Chernobyl. Aleksey si sporge dal finestrino del pickup, indica una macchia d’alberi sulla destra e dice: “Questi sono i magazzini Molochniy, o almeno ciò che ne resta”. L’auto sgomma veloce, ma dietro le frasche si intravede la sagoma grigia d’un palazzo in stile brutalista.
L’antica Prospekt Lenina, che un tempo fu la via principale di Prypjat, è stata inghiottita dalla foresta insieme a tutta la città. Nella primavera del 1986 i 55mila abitanti furono evacuati da un giorno all’altro, in fuga dai vapori tossici e dalle radiazioni sprigionati dall’incidente nucleare più famoso della storia. Nella notte fra il 26 e il 27 aprile il reattore 4 della centrale di Chernobyl esplose nel corso di un test, contaminando una regione sterminata e stravolgendo la vita di centinaia di migliaia di persone in mezza Europa. Da allora, Prypjat è una metropoli fantasma. I suoi abitanti vi abbandonarono ogni cosa perché tutto, anche gli oggetti della vita quotidiana, poteva essere infetto. Nelle case ancora si trovano i calendari segnati alla fatidica data del 26 aprile. Negli ospedali i flaconi dei farmaci impolverano sugli scaffali, mentre i letti degli austeri alberghi sovietici arrugginiscono da 31 anni nelle stanze ormai spoglie d’ogni altro arredo. Al vecchio parco giochi, muto simbolo della catastrofe, le macchine degli autoscontri stanno ferme al centro della pista.

Salendo sulla ruota panoramica si vedrebbe in lontananza il bagliore della grande struttura metallica che fa da tomba al luogo dell’incidente. Il reattore 4 è ora inglobato in un enorme sarcofago d’acciaio, il “New Safe Confinement” inaugurato nel novembre 2016: il presidente Petro Porosenko ha promesso che impedirà la fuoriuscita delle radiazioni per almeno un secolo. In attesa di scoprire se sarà vero, all’ombra del reattore la vita, bene o male, prosegue. Fra l’asfalto e l’erba spunta una volpe dall’aspetto malconcio. Zampetta a destra e a sinistra, quindi si avvicina alla nostra comitiva. E’ abituata alla presenza umana, tanto da nutrirsi ormai solo di rifiuti e di cibo donato dai visitatori.

Il nome di Chernobyl, iconico per molte generazioni in tutta Europa, da qualche tempo è associato a un’industria che mai avremmo pensato potesse svilupparvisi: quella del turismo. Come ad Auschwitz e ad Hiroshima, anche qui le rovine delle grandi catastrofi della storia richiamano curiosi da tutto il mondo. Dal 2011 il governo di Kiev ha aperto la zona rossa ai visitatori, alimentando un fiorente mercato di agenzie specializzate. Per qualche qualche centinaio di euro – che in Ucraina rappresentano un piccolo gruzzolo – i turisti sono ammessi entro il perimetro di 30 chilometri dalla centrale a vedere con i propri occhi come sarebbe il mondo dopo una catastrofe atomica. I siti specializzati offrono visite personalizzate con guide locali: molto spesso si tratta di ex lavoratori della centrale rimasti invalidi dopo l’incidente del 1986 e che ora tentano di guadagnarsi da vivere sfruttando la propria conoscenza dei luoghi del disastro. Chernobyl, nel bene o nel male, è ormai un luogo consacrato alla storia. Chi alla storia non è ancora stato consacrato sono invece i sopravvissuti. Trentuno anni di radiazioni hanno portato via molti uomini e molte donne, ma hanno anche forgiato storie degne d’un romanzo di fantascienza. A quattro chilometri dal confine bielorusso, sul limitare della zona rossa, sorge il villaggio di Paryshev. Dopo l’incidente venne evacuato dall’esercito; quindi venne dichiarato sicuro e poi evacuato una seconda volta. Nonostante il nuovo sgombero, alcuni abitanti decisero di restare: quattro vivono ancora lì. Fra loro l’81enne Ivan Semenuk, che trascorre le sue giornate fra il pollaio e l’orto, dove non teme di raccogliere le verdure nonostante le radiazioni. “Questa zona è sicura – garantisce mentre cammina con passo incerto – Certo, prima che ci evacuassero la fattoria era molto più grande e avevo molti più animali. Me li hanno portati via, come accadeva durante la guerra.”

Lo dice con una sorta di ottimistica rassegnazione, forte della certezza di chi sa che opporsi ai colpi del destino è inutile e dannoso. Quando parla della “avària” – così viene chiamato, da queste parti, l’incidente – lo fa con una forma di fatalistico rispetto: con il timore quasi reverenziale che si deve alle sciagure volute dal Fato. Non a caso, l’accostamento con la guerra del 1941-1945 ritorna anche nelle parole di una babuska seduta su una panchina alle porte di New Zalecie, il villaggio tirato su in fretta e furia per gli sfollati di Chernobyl. Avvolta in un fazzolettone che le copre i radi capelli grigi, ascolta le domande sull’incidente ma risponde parlando della guerra. In lei la consapevolezza che l’esplosione nucleare, come gli eserciti, arriva, devasta e va. Lascia dietro di sè una scia di sangue e sopravvive solo nei racconti. Ha collaborato alle traduzioni Marina Galij