Può un numero diventare il punto di partenza per una grande storia? Sì, se non ci si dimentica il ruolo centrale delle “notizie”. Ne è convinto uno dei pionieri del data journalism in Italia, Riccardo Saporiti, data journalist freelance che si occupa di dati per varie testate come Il Sole 24 Ore, Wired Italia e Varese News. Abbiamo parlato con lui per capire cosa vuol dire “lavorare coi dati”, ma anche come si può portare questo tipo di giornalismo nelle redazioni e renderlo utile e interessante per i lettori.
Come hai scoperto il data journalism?
Una decina d’anni fa lavoravo in un quotidiano locale e ho iniziato a cercare dati sui comuni del territorio sul sito di Istat. Lì ho capito che mi piaceva lavorare con i numeri. Poi ho iniziato a leggere alcuni articoli, specialmente di testate inglesi e americane, ho seguito qualche corso. Infine ho avuto la fortuna di fare delle proposte di pezzi data che sono piaciute alle redazioni con cui collaboro.
Quali sono le caratteristiche di un buon pezzo di data journalism?
Deve contenere una notizia e deve spiegarla in modo chiaro ed esaustivo, esattamente come ogni articolo.
Qual è l’esempio migliore di data journalism apparso in un giornale?
Non so se sia il migliore in assoluto, francamente ha poco senso stilare una classifica. Ma un lavoro grandioso è quello che fece Isaia Invernizzi sull’Eco di Bergamo a marzo del 2020, quando parlando con i sindaci del territorio raccolse i dati sui decessi e capì che le persone che stavano morendo di Covid-19 nella bergamasca erano molte di più di quelle comunicate dai dati ufficiali. Scoprì insomma che c’era una pandemia “sommersa” che non si vedeva nei numeri perché in Lombardia non si facevano abbastanza tamponi.
Il data journalism può essere un valido strumento contro fake news e disinformazione?
La scuola, l’educazione, l’istruzione e la capacità che hanno di formare negli individui uno spirito critico sono un valido strumento contro fake news e disinformazione. Il giornalismo, al contrario, può favorire la diffusione di disinformazione: succede quando viene fatto male e fa sì che i lettori perdano fiducia in chi li informa. E allora, a quel punto, l’opinione di mio cugino vale quanto un’inchiesta del New York Times.
Qual è lo stato di salute del data journalism oggi?
Da un punto di vista delle opportunità , direi molto buono, nel senso che ci sono diversi tool, anche gratuiti, che permettono di gestire, analizzare e visualizzare dati. E anche le possibilità di formazione abbondano, specie se si parla inglese. Rispetto all’uso che se ne fa nelle redazioni, ci sono diverse esperienze interessanti: oltre a quelle con cui ho la fortuna di collaborare, penso ad esempio a Domani. Dopodiché, siamo il Paese in cui le edizioni digitali di alcuni quotidiani pubblicavano l’immagine della tabella con i contagi del bollettino quotidiano della Protezione civile, quindi direi che resta un più che discreto margine di miglioramento.
A volte il data journalism rischia di essere percepito come eccessivamente complesso, quale può essere la soluzione per renderlo fruibile per tutti i lettori?
É una questione che credo debba essere affrontata su due piani. Il più immediato è quello della visualizzazione: dataviz troppo elaborate, magari anche esteticamente notevoli, rischiano di essere difficili da comprendere. O perlomeno non immediate. Quindi mi sentirei di dire che, tra chiarezza e bellezza, un giornalista deve scegliere la prima. Non a caso testate come il Financial Times o l’Economist hanno scelto uno stile di visualizzazione molto minimalista, semplice ma immediatamente comprensibile. Il secondo piano è quello più legato al racconto giornalistico tradizionale: bisogna tentare di spiegare concetti con cui un pubblico generalista non ha necessariamente familiarità , ad esempio anche uno semplice come quello di media mobile, nella maniera più chiara possibile.
Cosa può portare un data journalist a una redazione?
Può portare delle notizie. Esattamente come un nerista, un cronista parlamentare, un giornalista sportivo. Con l’unica differenza che molto spesso le sue fonti sono dei fogli di calcolo.
Che competenze servono oggi per approcciarsi a questo mondo?
Andrea Borruso, il presidente di onData, un’associazione impegnata nella diffusione della cultura degli open data, dice che per lavorare con i dati bisogna aver letto i primi tre capitoli di alcuni libri: quello di statistica, quello di fogli di calcolo, quello di data visualization. Sono tante le competenze necessarie, ma non occorre essere degli specialisti. Per dire, io ho studiato filosofia all’università ..
Molto spesso i ragazzi e le ragazze che si approcciano al giornalismo conservano un’idea romantica legata alla scrittura, come si rende interessante il data journalism?
Il mio primo maestro mi ha insegnato che un giornalista deve trovare le notizie. Un articolo non è un esercizio di bella scrittura, a prescindere dai dati. Allo stesso modo, a rendere interessante il datajournalism sono le notizie.
Secondo te un giovane collega che si approccia al data journalism da dove dovrebbe partire?
Come dicevo, dai primi tre capitoli di diversi libri. E dalla capacitĂ di farsi delle domande.