La storia d’Italia – come quella di ogni altro Paese – è fatta di luci ed ombre. Più ombre, a dire il vero. E a saperlo bene, perché in quelle ombre si è mosso con il piglio dell’investigatore e la sapienza dello studioso di razza, è sicuramente il professor Aldo Giannuli, docente universitario, storico e analista, nonché consulente per molte Procure in alcuni dei casi più torbidi della nostra storia repubblicana. Nel corso della sua trentennale carriera, Giannuli ha avuto il merito di compiere importanti scoperte, scavando in archivi il cui accesso non sempre è facile, dove muoversi dà l’idea di essersi perduti in un labirinto di minoica memoria. Importanti scoperte che hanno permesso non solo alla giustizia di fare grandi passi avanti, ma che hanno fornito il materiale fumante su cui decine e decine di giornalisti d’inchiesta hanno plasmato le loro storie. Sua, tanto per dirne una, è la scoperta dell’ “Anello”, o “Noto servizio”, un servizio segreto parallelo la cui attività emerge in controluce in numerosi fatti di cronaca (e di sangue) più o meno recenti. Sua è anche la scoperta dell’archivio segreto di via Appia, a Roma, dove Silvano Russomanno, braccio destro di Federico Umberto d’Amato, il ras dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, conservava la documentazione relativa alla sua attività e a quella del suo ufficio. Insomma, Aldo Giannuli l’indole del segugio ce l’ha nel sangue e proprio per questo sarà lui, insieme al giornalista Marcello Altamura, ad aprire il corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver, il 15 ottobre. Per l’occasione, gli abbiamo fatto qualche domanda.

Quali sono i casi di cronaca che hanno innescato le più grandi inchieste italiane?

Quante ore ho a disposizione? In primo luogo io indicherei i grandi processi di mafia degli anni Quaranta, quando iniziano le istruttorie di alcune stragi (nel caso di Portella della Ginestra si va a giudizio negli anni Cinquanta), poi ci sarà il seguito dell’istruttoria sul caso Pisciotta (Gaspare Pisciotta, presunto killer di Salvatore Giuliano, morto avvelenato nel carcere dell’Ucciardone nel 1954, ndr). E altri casi minori. Parliamo sempre di stragi, non di cose leggere. Poi ci sono stati alcuni processi di corruzione che sono stati importanti alla fine degli anni Cinquanta. Tipo il caso il caso Giuffrè, che segna già un passaggio, perché si passa dalla corruzione sporadica a quella frequente, insistente (Giovanni Battista Giuffrè, al centro di uno scandalo sull’utilizzo di fondi che sarebbero serviti alla ricostruzione dei beni ecclesiastici danneggiati nel corso della Seconda guerra mondiale, ndr).


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D’accordo, ma nell’immaginario collettivo queste sono storie che appartengono a un passato percepito ormai come lontano. Quali sono, al contrario, i casi (e le inchieste) che ancora oggi fanno tremare i polsi a qualcuno?

Beh, ci sono ovviamente i grandi processi di strage: Piazza Fontana, Brescia, che appunto avranno uno sviluppo fino ai giorni nostri. Processi ripetuti, ecc… Di questo gruppo fa parte anche Bologna.

Su Bologna ci torniamo. Altri grandi casi?

Ripeto: quante ore ho a disposizione? Vediamo: negli anni Settanta abbiamo enormi scandali come quello del Petroli e di Italcasse. Su entrambi lavorò il giornalista Carmine “Mino” Pecorelli, che dalle pagine del suo Op (Osservatorio politico, ndr) non si limitava a fare inchiesta ma anche a lanciare messaggi. C’è poi il grande processo sulla P2, che ha fornito un’infinità di materiale ai giornalisti dell’epoca e, perché no, anche a quelli di oggi. Per non parlare del caso Moro.

Venendo proprio ai giornalisti, in questo calderone dove troviamo di tutto: delitti eccellenti, stragi, servizi segreti, massoneria, mafia e altre amenità, che ruolo ha avuto il giornalismo d’inchiesta?

Dipende. Dipende dai momenti. Per la verità il giornalismo d’inchiesta in Italia si è sempre ridotto a iniziative individuali, per esempio sul caso Pisciotta l’inchiesta che fece l’Europeo fu fondamentale; sui casi di scandali degli anni Cinquanta, fine anni Sessanta, ha avuto un ruolo importante l’Espresso. Sui casi di strage è stata per lo più la contro-informazione ad avere un ruolo molto importante. Mani Pulite è una cosa diversa: in quel caso il giornalismo va al carro di quello che fa la magistratura, negli altri casi tu hai un giornalismo d’inchiesta che sopravanza e spesso stimola le inchieste della magistratura. Su Mani Pulite è un po’ il contrario.

Ci vedi l’inizio di una degenerazione della professione?

Non dico che inizia una degenerazione, ma dico che le iniziative della magistratura condizionano il giornalismo, che si limita a riferire. A fare da megafono.

Nella tua attività di consulente per le Procure, qual è stato il caso dove pensi di aver profuso le principali energie?

Il caso su cui ho lavorato di più è stato sicuramente Brescia (strage di Piazza della Loggia, ndr). Per questa strage ho fatto una cosa come 51 o 52 relazioni. Però per me è stata molto importante anche l’inchiesta del magistrato Guido Salvini, che è la premessa nel processo su Piazza Fontana. Lì sono stato suo consulente. Ultimamente, poi, ho avuto Bologna (la strage della stazione del 2 agosto 1980, ndr) come caso importante.


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Dov’è che hai trovato più il torbido? Qual è stato, secondo il tuo punto di vista, il periodo più nero per la storia d’Italia?

Dobbiamo fare la “torbid parade”? Beh, quando si inizia a scavare in un archivio è come immergersi in un abisso oceanico: non sai mai quale mostro marino possa sbucare fuori dal buio. Comunque, se devo dire dov’è che ho trovato il torbido, è nella corruzione. Si è passati dalla corruzione sporadica a quella frequente. Poi a quella diffusa, a quella generalizzata e a quella sistemica, che in parte è rientrata, ma forse ha solo cambiato fisionomia dopo la fine della Prima Repubblica. Nel corso della Prima Repubblica, appunto, lo scandalo tipico era quello delle grandi opere pubbliche, dopo invece hai avuto per lo più una forte insistenza di casi di scandali finanziari. Quindi anche di coinvolgimento delle istituzioni in giochi di questo genere.

Nella corruzione vedi il male endemico dell’Italia?

Si, quello permanente. In qualche modo si tratta di una parabola che fino a un certo punto ha avuto un crescendo, poi si è arrestata ed è un po’ cambiata, ma in realtà mai vinta.

Gli archivi più ostici con cui hai avuto a che fare, le maggiori resistenze, se ne hai trovate?

Ci sono delle resistenze proprio istituzionali, perché ci sono archivi dove c’è il segreto Nato e non vale la normativa italiana.

Su quali?

Alcune segreterie. Le segreterie di Sicurezza, quelle dei rapporti con la Nato, lì non ci puoi entrare. Ci sono alcuni archivi dove proprio istituzionalmente non puoi avvicinarti. Per esempio quello della Corte Costituzionale, che non ha un grande interesse. Però c’è per esempio quello della Presidenza della Repubblica: lì ci fu una procura, quella di Roma, che non è che chiese di entrare, chiese “se noi vi chiedessimo di vedere il registro dei visitatori del presidente della Repubblica” – dovevano vedere quante volte fosse andato Licio Gelli – “voi cosa ci rispondereste?” quindi una pre-domanda. La risposta fu praticamente “che c’avete le pigne in testa”. Il discorso finì lì.

Che presidente c’era all’epoca?

Non è questione di quale presidente ci fosse. Si trattava di un arco di anni che abbracciava tutti gli anni Settanta. E questo, cioè la pre-richiesta della Procura di Roma, accade negli anni Duemila. Poi c’è l’archivio dei carabinieri che ti sfugge tra le mani come un’anguilla; vai al comando generale e ti dicono: “sì, ma questo è un archivio amministrativo, per la direzione informativa dovete vedere a livello di Legione o Regione”. Vai a livello di Regione e ti dicono: “No, ma qui devi vedere a livello di compagnia”, vai a livello di compagnia e ti dicono “vai a vedere le stazioni”. E tu dovresti andarti a vedere qualcosa come 7mila stazioni d’Italia. Quindi in realtà c’è sempre qualcosa che sfugge tra le mani. Buona l’accoglienza nell’archivio della Finanza; discreto quello del ministero degli Interni; già molto più corazzato quello del Servizio segreto militare.

La strage alla stazione di Bologna. Arriveremo mai a una verità indiscutibile?

Intanto ci sono alcune condanne, quindi un po’ alla volta, a livello di esecutori, alla verità ci siamo arrivati. Il problema è che 40 anni dopo cosa vai cercando? È ovvio che più di qualche attuale settantenne, che all’epoca era venticinque/trentenne, cosa vuoi trovare? E infatti l’inchiesta di Bologna ha lambito, con prove documentali, figure come Federico Umberto d’Amato e Gelli, ma che te ne fai? Sono morti tutti e due e da un bel po’.

Però non possiamo ignorare che, al di là della verità di cui parli, ci sono studiosi, giornalisti, scienziati che mettono in discussione gran parte della ricostruzione giudiziaria, puntando il dito verso la cosiddetta “pista internazionale”, che vorrebbe la strage compiuta non dai neofascisti ma, sintetizzando al massimo, dai palestinesi o comunque da un gruppo di persone legate al terrorista internazionale Carlos Ramirez Sanchez, “lo sciacallo”. Al di là di posizioni ideologiche, tu cosa ne pensi?

Quella è una cosa che non sta in piedi. Anche se bisogna dire che i pasticci sono stati molti, anche perché c’è stata manipolazione dei corpi di reato. Certo, dobbiamo vedere se la Cassazione conferma le sentenze cui si è arrivati, ma quello può essere l’ultimo atto. Dopodiché anche a trovarlo un altro iniziato – e forse può venir fuori – comunque si tratterebbe di una figura di secondo piano e, in ogni caso, meno di 65 anni non li avrebbe. Come pretendi dopo mezzo secolo di trovare un testimone che ti dica “sì sì, io il signore me lo ricordo, era all’angolo della tabaccheria e aveva una borsa marrone”. Se te lo dicesse tu dubiteresti sul fatto che sia una deposizione vera?

Dunque bolli come inattendibile sotto ogni punto di vista la pista internazionale? Questo è un terreno scivoloso, saranno in molti a non essere d’accordo.

Assolutamente sì, confermo quello che ho già detto: non sta in piedi da nessuna parte, non è stato mai prodotto nulla di credibile a sostegno. Ogni volta che si è tentato di rilanciare la cosa, è franata miseramente.

Attendiamo su questo le repliche che sicuramente ci saranno e a cui daremo volentieri spazio, ma adesso avviamoci a conclusione: ritieni che corsi come quello di cui sarai ospite possano essere utili a indirizzare le persone verso la professione giornalistica?

Sì, a condizione che si capisca che quella del giornalista è una professione che sta cambiando. I giornali e i mass media più importanti stanno facendo finta di non capire che l’urto forte che è venuto dal web e in particolare da YouTube sta cambiando il mondo della comunicazione. E infatti si comincia a parlare proprio di “comunicazione” al posto di “informazione”.

E non credi che parlando di comunicazione anziché di informazione si rischi una degenerazione o comunque un appiattimento della professione?

Il rischio c’è, certo. Ma il rischio c’è anche se non ti evolvi!





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