Abbatte statue, censura favole, riscrive la Storia. Epura scrittori, professori, scienziati, comici non in linea con i suoi dettami. La mannaia del politically correct non risparmia nessuno. Nemmeno i giornalisti. Alfieri della nuova “religione” laica o vittime sacrificali, e sacrificabili, quando osano non essere conformi.
L’autocensura politicamente corretta che ha travolto i media progressisti americani culmina nel 2020, dopo l’omicidio dell’afroamericano George Floyd per mano della polizia. E non si ferma. Quello – dice Ruy Teixeira, politologo e fondatore di “The Liberal Patriot” – è servito solo come esempio del “razzismo strutturale” dell’America a “supremazia bianca”. “Le élite progressiste e le loro istituzioni si sono affrettate ad abbracciare l’idea che la razza sia il motore principale della disuguaglianza sociale e che tutti i bianchi debbano essere visti come privilegiati e tutte le “persone di colore” come oppresse”. Da risarcire per secoli di soprusi. Anche quando delinquono. Una narrazione con cui è vietato dissentire, altrimenti si è fuori.
Le teste che cadono sono tante e sono tutte illustri. A cominciare da James Bennet, capo della sezione “opinioni” del New York Times, costretto a dimettersi per aver pubblicato un editoriale del senatore Tom Cotton, favorevole all’impiego dell’esercito contro le frange violente delle rivolte pro neri che stavano devastando mezza America. Ad essere fatale a Stan Wischnowski, caporedattore del Philadelphia Inquirer, è un titolo: “Buildings Matter, Too” (anche gli edifici contano, ndr), che fa il verso a “Black Lives Matter”, vessillo delle rivendicazioni antirazziste.
Una lettera contro la cancel culture, firmata dalla giornalista del NYT Bari Weiss, segna la sua condanna. Assunta nel tempio del progressismo per riequilibrarne gli eccessi perché di centro-sinistra, si è dimessa stremata dal “clima tossico” di una redazione che per essere “inclusiva” bullizza a colpi di tweet (“razzista”, “nazista”) chi non si prostra alla “nuova ortodossia” liberal. Donald G. McNeil, giornalista scientifico di punta, sempre del New York Times, viene linciato per una parola detta (l’epiteto tabù per eccellenza “nigger”), ignorando contesto e intenzioni dell’”oltraggio”. Si dimette. E questi sono soltanto i casi che hanno fatto più rumore riguardanti la questione razziale, sentita negli States più che altrove.
Autocensura ed epurazione dell’’”eretico” sono la norma anche quando si toccano le altre categorie “santificate” dall’ideologia woke (propria di chi si è risvegliato, woke in inglese, ed è consapevole dei propri privilegi e pregiudizi razziali da espiare): donne, appartenenti alla comunità LBGTQ+, disabili, migranti. Il punto di vista deve essere uno solo: a favore, incondizionato e acritico. Pena: la gogna. Che addita e fa terra bruciata attorno ai dissidenti, dall’ondata di purghe inflitte dalla dittatura del politically correct.
In un panorama mediatico in cui “il dibattito – dice Michael Lind, giornalista e cofondatore del think tank New America – è stato sostituito dall’assenso obbligatorio e le idee sono state sostituite da slogan che possono essere recitati ma non messi in discussione”, ad essere via via sacrificata è l’obiettività giornalistica. Al punto che un fatto diventa notizia se avvalora la narrazione woke, altrimenti viene bannato.
È il caso, sollevato da Federico Rampini in “Suicidio occidentale”, del giovane ricercatore piemontese Davide Giri, ucciso a New York da un pregiudicato afroamericano appartenente a Ebk, una delle gang più feroci del Queens. La notizia, nonostante la rilevanza, viene censurata dal New York Times perché stona con la retorica antirazzista sposata dalla testata. “L’interesse del quotidiano e il vigore investigativo messo in campo – scrive Rampini – sarebbero stati diversi se le parti fossero state rovesciate. Se cioè la vittima fosse stata afroamericana e l’omicida un bianco; […]. La tragedia sarebbe finita in prima pagina”.
Anche il principio dell’obiettività alla base di ogni giornalismo credibile si immola in nome del “grande risveglio” e diventa “un concetto problematico che ha contribuito a emarginare i giornalisti non bianchi, escludendo le comunità di colore e nascondendo strutture di potere che giustificano lo status quo”.
Ora, però, la dittatura del politically correct sembrerebbe mostrare qualche crepa. Molti si sono resi conto che gran parte di ciò che facevano per compiacere l’ideologia woke non aveva senso, o era dettato più dalla paura di essere epurati che da una reale convinzione. Non solo. “È diventato sempre più ovvio – nota Teixeira – che le persone che dovrebbero beneficiare del “risveglio” collettivo non sono d’accordo con alcune delle iniziative correlate”. Dalla campagna “Defund the police” per tagliare i fondi stanziati per la polizia (non apprezzata dagli elettori neri delle comunità infestate dalla criminalità) all’appello del giornalista afroamericano del Wall street journal Jason Riley, che ci ha scritto un libro: “Per favore, smettetela di aiutarci: come i liberali rendono più difficile il successo dei neri”.
Se il “picco del wokismo” pare passato almeno nella società, qualcosa si muove anche nel contesto di “morte cerebrale” del giornalismo Usa, polarizzato tra woke a tutti i costi e no woke a prescindere. “Ciò che sopravvive – rileva Lind – oggi è costituito da un numero crescente di esiliati su Substack dal wokismo dell’establishment e da un numero crescente di dissidenti di sinistra, conservatori e populisti, alcuni dei quali si sono riuniti in nuove pubblicazioni come American Affairs, Compact, The Bellows, o più stravaganti come Tablet”.
Il cambio di passo si avverte anche negli avamposti della battaglia progressista. La Cnn, per smarcarsi dalle accuse di essere di parte e tornare a un approccio più obiettivo, si sta ricalibrando con programmi e conduttori spostati più al centro. Mentre The Atlantic ha pubblicato un articolo che mette in crisi uno dei dogmi della crociata liberal contro le parole: non ci sono prove – si legge – che un termine considerato “equo” o “offensivo” lo sia anche per quelle categorie che si vogliono tutelare. La conferma arriva da Ruben Gallego, membro democratico del Congresso: “Quando noi politici latini usiamo il termine “latinx” (scelto dai liberal per definire gli americani di origini latine, ndr) è in gran parte per compiacere i progressisti ricchi e bianchi convinti che lo usiamo anche tra di noi”.
Se il fervore politically correct sembra perdere i colpi, la guerra alla cultura woke non tira più neanche a destra, dove è chi punta sul tema sicurezza a guidare i sondaggi. Tutti segnali che in America, con la campagna per le presidenziali in corso, ci penserà la paura di perdere consenso a smorzare l’ideologia. Della politica, e dei media.