Laurea in scienze agrarie all’Università di Padova, un Ph.D in microbiologia alla UCC di Cork, in Irlanda. Nella Bologna dei primi anni Duemila arriva la svolta. L’esordio, per caso, in radio, poi, un master in comunicazione della scienza alla SISSA di Trieste per imparare a ‘pesare’ l’impatto dell’informazione scientifica nel contesto pubblico. Elisabetta Tola, conduttrice di Radio3Scienza, firma importante di diverse testate italiane e internazionali, ceo e co-fondatrice dell’agenzia di comunicazione formicablu e di Facta, ci spiega qual è stata la molla che le ha fatto scattare la passione per il giornalismo scientifico e perché oggi non ne possiamo più fare a meno.

Sei laureata in agraria con un dottorato in microbiologia, ma hai deciso di fare la giornalista. Perché questo cambio di rotta?

Per prima cosa, nella Bologna del ‘99 l’ambiente della ricerca era molto meno internazionale del contesto in cui ero abituata in Irlanda durante gli anni del dottorato. Poi, lo dico molto sinceramente, forse per me il fuoco sacro della ricerca non c’era. Contestualmente in quel momento ho avuto l’opportunità di collaborare con una radio locale, Radio Città del Capo, inizialmente per cose che non avevano nulla a che vedere con la scienza, ma poi, quando hanno scoperto che avevo un background scientifico, mi hanno chiesto di fare delle piccole pillole, dei piccoli approfondimenti a tema scientifico. E quello mi ha aperto un mondo perché ho pensato: “Prendere gli argomenti scientifici che conosco e portarli all’interno di un discorso informativo, collegandoli ai temi politici, economici e sociali…questo è quello che mi piace!”. Erano i tempi in cui si parlava di OGM e nasceva il bisogno forte di un’informazione scientifica. E io mi sono trovata nel posto giusto al momento giusto. Così ho deciso di tornare a scuola per fare il master in Comunicazione della scienza, ho continuato a lavorare in radio a Bologna per un anno e poi ho iniziato a lavorare come giornalista freelance. Ma in realtà, devo confessare, che è quello che ho sempre sognato, da quando ero piccola e pensavo che fare la giornalista fosse uno di quei lavori impossibili.

Pensi sia imprescindibile una laurea a tema per fare divulgazione scientifica? 

No. Indispensabile è avere una cultura molto trasversale. Più che avere una laurea scientifica è utile sapere come funziona il mondo della scienza, capire quali sono i modi in cui si produce la conoscenza scientifica, come viene validata, la differenza fra conoscenze convalidate e opinioni all’interno del contesto scientifico. Certo, allora per me è stato utile averla. Ma, come dico sempre anche ai miei studenti, serve assolutamente una formazione nel campo della comunicazione, della sociologia, del modo in cui l’informazione poi viaggia nel contesto pubblico. 

Molti scienziati-medici preparatissimi spesso sono degli scarsi divulgatori. Quindi non basta saperne tanto di qualcosa per poi saperne parlare?

Anzi, delle volte è limitante. Al di là della grande competenza bisognerebbe avere contezza dell’impatto che l’informazione può avere sulle persone. Perché, lo abbiamo visto in questi anni di pandemia, delle volte gli esperti, anche in buona fede, fanno delle affermazioni durante contesti informali come i talkshow, che poi prendono una serie di altre strade di cui non sono più consapevoli e che è difficilissimo andare a correggere. Questo perché manca formazione su come funziona l’informazione digitale.

Durante la pandemia la divulgazione scientifica è salita alla ribalta. È aumentata la consapevolezza e l’interesse per le questioni sanitarie, ma anche la diffusione di fake news. È tutta colpa dei social network o anche del giornalismo, che qualche volta ha prestato il fianco a strumentalizzazioni?

Io non darei la colpa ai social. Il problema è che l’intero sistema informativo non ha tenuto. A partire dagli esperti, perché molti non erano preparati a stare nel contesto pubblico. Improvvisamente si sono trovati in televisione, sui social, sui giornali senza  essere stati preparati adeguatamente agli effetti della comunicazione. Sappiamo bene che la pandemia avrebbe richiesto non solo un piano pandemico ma anche un piano di comunicazione che sarebbe servito a contenere tutti i problemi di disinformazione o misinformazione. In cui i giornalisti italiani hanno avuto un ruolo, perché gran parte non hanno una formazione scientifica né una formazione sulla comunicazione della conoscenza scientifica. Si sono trovati a coprire qualcosa non avendo gli strumenti per interpretare quello che veniva loro detto dall’esperto di turno. E la dimostrazione è che spesso pretendevano certezze, quando invece chiunque lavori in campo scientifico sa che chiedere certezze è una sciocchezza.

Un consiglio per riconoscere una bufala e uno per interpretare e comunicare un dato scientifico in modo imparziale?

Io non amo molto il termine fake news. Il vero problema è l’informazione inaccurata, tutta la disinformazione che gira, cioè il fatto di prendere delle informazioni estrapolandole da un contesto e facendole diventare un’altra cosa. Il mio consiglio è di stare attenti al linguaggio. Diffidare dei toni certi, di affermazioni apodittiche o di opinioni strettamente personali collegate a toni complottistici. Per chi deve comunicare, invece, consiglierei di considerare quanto l’esperto considerato come fonte sia davvero preparato su quel tema. Quindi, banalmente leggersi bene il curriculum! Il secondo consiglio è crearsi un’agenda di esperti e sentire sempre voci indipendenti per avere dei feedback validi.

Dopo tre anni di Covid, secondo te il giornalismo scientifico ne esce peggiore o migliore?

Migliore, perché ha imparato a ragionare sugli errori. Peggiore, perché si è un po’ affermata l’idea che il giornalismo scientifico serva a dare certezze. Quello non dovrebbe essere assolutamente il suo ruolo.

E la consapevolezza media in tema salute è cresciuta o, invece, ci fidiamo ancora meno della scienza?

Secondo me la consapevolezza media è cresciuta tantissimo, perché in giro si sentono discorsi sulla necessità nella scienza di aspettare i tempi, le validazioni, oppure le persone parlano di varianti del virus anche quelle più anziane che magari non hanno alcuna formazione scientifica. Io mi fido molto di più del pubblico che del giornalismo. C’è un po’ la presunzione, da parte di chi fa informazione, di dover sempre abbassare il livello. In realtà, si tratta solo di trovare il linguaggio giusto.

Tu hai un approccio crossmediale e usi più mezzi di divulgazione. Quale si presta di più per parlare di scienza e perché?

Non credo che ci sia un mezzo migliore, credo che ognuno di noi funzioni meglio su mezzi diversi. Io funziono bene su tempi un po’ più lunghi, quindi per me la radio è perfetta. Ma adoro anche il web, la scrittura e il podcast. I social li uso molto come fonte, soprattutto per monitorare il discorso pubblico, ma non come mezzo per lavorare. Poi, ti posso fare l’esempio di una mia amica e  collega, Beatrice Mautino, che è una divulgatrice ormai molto nota e che, invece, va benissimo su Instagram. È la combinazione fra la persona che comunica e la sua capacità di comunicare con quel mezzo a intercettare un pubblico.

Il rischio di fare il giornalista scientifico è che, data la tecnicità, i contenuti risultino poco potabili ai più. Qual è il trucco, se ne hai uno, per essere sicura di arrivare a tutti?

Io sono una giornalista, quindi il mio obiettivo non è quello di spiegare in modo dettagliato e accessibile tematiche scientifiche. Quello è il lavoro del divulgatore in senso stretto, il cui capostipite sappiamo tutti essere stato Piero Angela. A me interessa più occuparmi dell’impatto, del ruolo, delle connessioni fra scienza e altri ambiti. La complessità è ciò che mi incuriosisce di più e cerco di comunicare riportandola al contesto concreto, di vita delle persone.

Spesso il giornalismo scientifico viene considerato come settoriale, difficile, ‘noioso’. Perché non è così?

Macché noioso, al contrario è affascinante il viaggio che ci fa fare nella vita, le opportunità che ci apre, non solo per capire il mondo in cui viviamo ma anche per vivere. Tutto quello che facciamo, i bisogni più basici, come alimentarsi in un certo modo, scegliere una data attività fisica o tecnologica: tutto questo ha dentro un cuore scientifico. In questo momento storico non c’è cultura né progresso senza scienza. Faccio un esempio su quello che è successo a Seul. Noi, anni fa, a Radio3Scienza ci siamo occupati, in occasione di un caso analogo, di una branca della scienza che studia i movimenti della folla. Ecco, capire come applicarla potrebbe essere decisivo per prevenire questi eventi e salvare vite. La scienza è dentro ogni cosa.

Al netto della pandemia che ha monopolizzato il settore, qual è il tema scientifico del futuro su cui punteresti?

Il tema dei temi è la crisi climatica in tutte le sue diramazioni e come riusciremo a gestirla. Due temi che amo molto, invece, sono: la produzione alimentare, che è da sempre centrale perché l’umanità si è sempre dovuta alimentare anche prima di questa ‘cosa organizzata’ che conosciamo oggi; l’altro è l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in tutti gli ambiti sociali: dal controllo alla sorveglianza, all’opportunità di analisi dei grandi dati, fino all’abilità di individuare meccanismi di protezione collettiva o meno. È un tema di cui ci occupiamo troppo poco, ma i cui impatti sono già ben presenti.

Cosa pensi dell’uso massiccio dei social da parte di medici-divulgatori per raggiungere anche un target più giovane e trasversale? 

Io penso che dipenda sempre da chi lo fa e da come lo fa. Ho visto bravissimi medici in questo periodo trovare una propria voce in ambito social, costruendo un dialogo diretto e un canale di fiducia con il proprio pubblico. Che è una chiave anche per gestire paure, incertezze, dubbi e per ragionare insieme su cosa significhi affrontare un certo rischio. Cosa molto utile, soprattutto per un pubblico giovane che magari per informarsi usa solo i social. In questo caso trovo sia fondamentale che il divulgatore abbia ben presente la grande responsabilità di cui è investito. Mentre trovo deleterio che stia lì per impartire lezioni o per scatenare polemiche con chiunque.

Un esempio valido?

Una molto brava è Roberta Villa, che da inizio pandemia ha usato Instagram per discutere con le persone dando spazio alle loro domande a partire da dubbi, paure e incertezze. Tutto con un tono accogliente, rispettoso e mai offensivo. Poi, c’è tutta una generazione di divulgatori molto giovani e molto bravi che usano i social, da Instagram a Twitch, con notevoli capacità di interazione con il proprio pubblico.

Quindi, la scienza ha ormai imparato a parlare da sola o serve ancora il giornalista scientifico?

Serve tantissimo. Il giornalista scientifico deve avere il ruolo di capire i bisogni informativi del pubblico o dei pubblici, per aiutare a comunicare dei contenuti difficili, facendo attenzione a come questi possono essere contestualizzati. E la capacità del contesto ce l’ha il giornalista, molto meno l’esperto, che di solito è sintonizzato solo sul proprio settore. Per cui, non credo assolutamente che la comunicazione disintermediata possa sostituire il giornalista scientifico.

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