La Banda della Magliana, attiva tra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta, ha scritto la storia della criminalità organizzata italiana. Le sue attività l’hanno vista coinvolta, tra l’altro, nell’omicidio Pecorelli, nel sequestro Moro e nella sparizione di Emanuela Orlandi. I partecipanti del Corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy hanno avuto l’occasione di poter intervistare l’ex-boss della banda, Antonio Mancini, noto anche come “l’Accattone”.
Mancini era un capo abbastanza verace, ancora legato al ruolo di bandito e dunque poco incline alla “politica” e alle pubbliche relazioni, come potevano essere invece membri quali Nicoletti, Diotallevi, De Pedis e Abbruciati.
Ad oggi, Mancini, dichiara di essere riuscito a mettere una distanza tra l’uomo che era e l’uomo che è ora.
I corsisti della Newsroom Academy sono stati suddivisi in sette gruppi, ognuno dei quali sta sviluppando un’inchiesta: “Feste private” composta da Sofia Fossati, Edoardo Mario Francese e Guglielmo Calvi; “Svaniti nel nulla” di cui fanno parte Martha Conterno, Claudio Monzio Compagnoni e Giulia Narisano, quest’ultima tra i vincitori del Corso di giornalismo di reportage della Newsroom Academy; “Disservizio Capitale” a cui lavorano Domenico Ricci, Mirko D’Antuono e Nicola Piccenna; “Furbetti del reddito” con Micaela Montaldo, Angelo Melchionna e Alessandro Di Luzio; “Malagiustizia” con Antonio Del Furbo, Flavio Ciccione e Alessandro Conterno; “Predatori Online”, con Giulio Vescovi, Manuele Avilloni e Isabel Demetz, anche quest’ultimi due appartenenti ai vincitori del Corso di giornalismo di reportage; e “La sfida alla globalizzazione dell’industria radiotelevisiva italiana” di Davide Zappa.
In un’occasione unica, ogni gruppo ha potuto porre una domanda all’ex-boss della Banda della Magliana.
Predatori online – Alcuni dei membri della banda, sfuggiti agli arresti, sono tuttora attivi?
Si sentono voci che continuano a dire che la banda è finita, io vi assicuro che non lo è. I membri più importanti eravamo tra i 20 e i 30 e tutti quelli che ci giravano intorno erano un centinaio. Ad oggi sono morti 4 membri della banda, come si fa allora a credere che sia finita? La banda cambia pelle, cambia faccia, ma è sempre quella. Ormai è una cosa che sta dentro la società e che tutt’ora incute timore.
Furbetti del Reddito – Perché ha deciso di collaborare?
Innanzitutto, è dovuta una premessa: io mi sono fatto tutta la mia galera. Undici anni. In quel periodo non mi è mai passato per la mente di collaborare, ma la cosa che mi dava fastidio era di vedere mia figlia solo attraverso i vetri. Quando sono uscito e ho rincontrato tutti quelli che della banda erano rimasti, i discorsi erano gli stessi di prima del carcere: “famo, ammazziamo, rubiamo”. A quel punto avevo capito che non volevo e potevo andare oltre. Dovevo diventare quello prima della banda, del crimine.
Io sono di origine abruzzese, se si vedono le mie pagelle salta all’occhio una cosa: gli otto e i nove in educazione civica e morale. L’anno dopo che arrivai a Roma, nel quartiere di San Basilio insieme alla mia famiglia, rubai la mia prima Lambretta. Di criminale fino a quel momento non avevo niente, è stato il posto a influenzarmi. Ma io non sono pentito. Per me chi si è pentito è un infame, io però avevo solo quella possibilità: per uscire dal crimine devi fare un taglio netto. Ora sono un altro uomo che mostra apertamente agli altri com’è e com’era. Sul mio citofono c’è scritto Antonio Mancini, quindi chiunque può venire e decidere cosa fare di me.
Malagiustizia – Hai mai avuto paura di una vendetta?
No, l’unica cosa dalla quale dovevo scappare era me stesso. Ho detto tutto quello che sapevo, senza nascondere niente, anche se c’è chi dice che mi sono limitato a dare a Cesare ciò che spetta a Cesare.
Disservizio Capitale – Se Lei non avesse deciso di collaborare, andando avanti negli anni avrebbe comunque scelto di diffondere la sua verità in qualche maniera?
Certo che sì. Perché mi sto svuotando. Il fatto che io abbia scritto un libro mi da modo di venire qui e raccontarmi. La mia chance l’ho avuta a 55 anni, alla fine del mio periodo di collaboratore.
Lo sapete cosa ti fanno quando collabori? Ti danno un altro nome. Sul citofono non c’era più Antonio Mancini, ma Malcolm Balestra. Poi all’improvviso i giudici mi dissero: non ci servi più. A quel punto non sapevo cosa fare di me. La mia fortuna è stata che sono stato gestito da un gruppo di poliziotti di Jesi, il cui capo era un signore che, dopo avermi osservato per anni, aveva capito che fossi cambiato davvero e, una volta finita la collaborazione, mi guardò e mi disse: cosa vuoi andare a fare adesso? Mi ricordo che gli dissi che volevo guidare il pulmino dei disabili. Il dolore sta lì, in chi ha bisogno. Certo, il mio lavoro lo poteva fare chiunque, ma non battere ciglio dinanzi alla bruttezza del mondo, quando hai visto il vero schifo, quello lo può solo fare uno come me.
Svaniti nel nulla – La Sua appartenenza alla Banda della Magliana è stata motivata da una volontà di riscatto? E c’è mai stato un momento in cui volesse uscire dalla banda?
No, non ci ho mai pensato. Vi racconto com’è andata la mia storia: arrivati a San Basilio eravamo sei figli e i nostri genitori, divisi in due camere. Mio padre bussava alla porta di un Parlamentare del PCI a chiedere casa. Persino da bambino, quando lui mi portava con sé, avevo capito che questo lo stava prendendo in giro. Mio padre si faceva una mazza tanta, alzandosi alle cinque del mattino per andare al lavoro, per poi mangiare un brodino la sera. Quando ho capito che chi invece nella borgata si alzava quando gli pareva, girando in Ferrari, erano ladri, allora capii da che parte stare. Era equiparabile a un senso di rivalsa: se bussi ti aprono la porta, se bussi con una pistola in mano te la spalancano.
Feste private – Ci sono stati membri della Banda della Magliana che si sono allontanati dalla banda?
C’erano membri che sin dall’inizio non erano particolarmente stretti, come Nicoletti, ad esempio. De Pedis invece iniziò a passeggiare per vicoli “non nostri”, a lui, più di tutti, aveva dato alla testa il potere. Fu quello che gli costò la vita.
La sfida alla globalizzazione dell’industria radiotelevisiva italiana – La sua redenzione è finita?
Assolutamente no. Ad esempio, considero questo che sto facendo qui con voi una redenzione.