Il 15 ottobre comincia il corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver. Sette appuntamenti presso la sede de IlGiornale.it, iscrizioni aperte già da ora e un limite di 20 iscritti. Un’occasione unica per apprendere le tecniche, conoscere gli strumenti, imparare a muovere i primi passi in un settore dell’informazione affascinante e, perché no, avventuroso. Tanti gli ospiti in calendario. Quello della giornata conclusiva – il 26 novembre – è Peter Gomez, che dopo aver mosso i suoi primi passi proprio a IlGiornale di Indro Montanelli ha avuto una carriera che l’ha portato a essere prima co-fondatore de Il Fatto quotidiano e poi direttore del Fattoquotidiano.it. Abbiamo avuto il piacere di scambiare con lui qualche parola. Ne è uscita un’intervista interessante sotto diversi punti di vista, che non fa che accendere ancora di più la curiosità per quello che condividerà nel corso dell’appuntamento di fine novembre.
Peter, cos’è il giornalismo d’inchiesta? O meglio, quand’è che un giornalista può essere definito un giornalista d’inchiesta?
Il giornalista può essere definito d’inchiesta quando va al di là delle notizie che vengono recuperate dalle fonti ufficiali. Un esempio: arrestano qualcuno, c’è un’ordinanza, se tu ne pubblichi il contenuto fai il cronista giudiziario. Ma se all’interno di quell’ordinanza ci sono dei nomi, delle storie e tu poi le sviluppi per conto tuo parlando con delle persone, facendo delle visure camerali, approfondendo delle piste alternative, ecco, allora diventi un giornalista d’inchiesta. Oppure quando, partendo da qualsiasi altro tipo di notizia, la approfondisci con tutti i mezzi che hai a disposizione. È qualcosa che va al di là della notizia secca che ci offre la cronaca tutti i giorni, è la ricerca che parte da una notizia per arrivare a una storia più grande.
PETER GOMEZ È TRA GLI OSPITI DELLA NEWSROOM ACADEMY.
GUARDA TUTTO IL PROGRAMMA E ISCRIVITI AL CORSO
In Italia siamo nelle condizioni di poter fare giornalismo d’inchiesta? Qual è lo stato di salute generale del giornalismo?
Lo stato di salute del giornalismo è cattivo. Ma non parlerò delle questioni politiche, di chi sono gli editori, ecc. Il vero punto è che oggi il giornalista è povero. L’inchiesta ha due caratteristiche: 1) non sai se ti porterà a un risultato; 2) non sai a quale risultato ti porterà. Paradossalmente potresti iniziare a lavorare su un’inchiesta che ti porta sul tuo editore, conosco colleghi a cui è successo. Per un giornale, dal punto di vista economico, l’inchiesta è un problema. Perché tu fai lavorare tanti giorni una persona su una storia e non sempre la storia arriverà a casa. Ed essendo le redazioni povere di persone, povere di soldi, spesso non se lo possono permettere. Tant’è vero che il giornalismo d’inchiesta lo fanno sempre più spesso i freelance. Ma i freelance hanno un problema: anche loro vengono pagati generalmente poco. È dura fare il freelance in Italia e per fare un’inchiesta c’è bisogno di soldi, perché magari devi comprare dei biglietti aerei, devi sostenere spese per portare la gente fuori a cena, spostarti, e se l’inchiesta è su scala nazionale, le spese vive aumentano e questo è un problema.
Corsi come quello dell’Academy di InsideOver o altre iniziative simili sono in grado di fornire gli strumenti o svegliare il sacro fuoco nascosto in chi si iscrive?
Si, secondo me si. Tutti i giornalisti di inchiesta hanno elaborato un proprio metodo. Il metodo può essere suggerito, tante cose possono essere spiegate, per esempio le ricerche d’archivio, quali fonti sollecitare, dal punto di vista tecnico si possono fare tante cose e si possono spiegare anche le cose che non vanno fatte. Se posso citare un episodio che riguarda un fatto molto recente e che mi ha fatto molto arrabbiare: i rapporti dei servizi segreti, in genere, non possono essere utilizzati dai giornalisti. Non perché sia vietato, ma perché i rapporti dei servizi segreti, per chi li ha visti, sono semplicemente delle veline, dei pezzi di carta. Su quel rapporto se c’è scritto che tu che mi stai intervistando sei un noto trafficante d’armi, se io dico che i servizi segreti dicono che tu sei un noto trafficante d’armi, tu mi porti in tribunale e io non avrò che un pezzettino di carta con nessun potere legale, senza un timbro, nulla, praticamente una lettera anonima, e tu vincerai la causa.
Ti riferisci alla notizia lanciata da La Stampa riguardo i possibili rapporti tra la Lega e la Russia?
Anche. Quella notizia poteva certamente essere pubblicata, l’aveva fatto precedentemente La Verità con altre modalità, tralasciando il fatto che è buona creanza tra colleghi, quando la notizia è importante, citarsi. Insomma, siamo tutti giornalisti. Ma al di là di questo, se tu hai mano una velina che ti racconta fatti del genere, quello che mi aspetto da un giornalista è che faccia delle telefonate. Il giornalista, in questo caso, ha chiamato l’ambasciata russa? Ha fatto altre cose che andavano fatte? Non è che siamo dei semplici passacarte. Possiamo esserlo nel momento in cui le carte sono ufficiali: arriva un’ordinanza di custodia cautelare, meglio che ci lavoriamo, ma se pubblichiamo quello che ci sta scritto dentro abbiamo fatto cronaca giudiziaria. Il resto è molto scivoloso. Molto. Mi ricordo che molti anni fa mi ritrovai in mano – perché me li diede un direttore de l’Espresso – dei rapporti dei servizi segreti sulla situazione in Albania. E scrivevano peste e corna del governo allora in carica, parliamo di più di vent’anni fa. Dicevano che il tale ministro trafficava droga, che l’altro aveva a che fare con i contrabbandieri, ecc. Io andai dal mio direttore dicendo “noi questa cosa non la possiamo pubblicare così”. Io avevo in mano dei pezzi di carta che magari erano anche giusti, perché non dubito dei nostri servizi segreti, ma noi dopo quando il ministro albanese tal dei tali ci querela cosa facciamo?
Nel giornalismo d’inchiesta c’è sempre il pericolo che la cosiddetta fonte non dia nulla per nulla, che ci sia sempre un interesse dietro. Come fa il giornalista d’inchiesta a discernere quando si tratta di un gesto di pura generosità e quando c’è dietro un “non detto” che può strumentalizzare il suo lavoro?
Il gesto di pura generosità non esiste. O quasi. Anche quando i carabinieri o la polizia fanno una conferenza stampa, lo fanno non solo per informare, ma per dimostrare che sono stati bravi, che hanno arrestato i ladri, gli spacciatori, ecc. Quando qualcuno ti da una notizia, c’è sempre un interesse dietro. Noi possiamo fare due cose: la prima è verificare che la notizia sia vera. Noi siamo come un Juke box, se la notizia è vera e ha interesse pubblico la diamo. La seconda cosa, se c’è invece un interesse losco dietro, del tipo che io do una notizia sul mio avversario politico perché lo voglio danneggiare politicamente, il giornalista d’inchiesta dovrebbe accendere un faro e al momento giusto (il giornalismo d’inchiesta è come il maiale, non si butta via niente) quel tipo di informazione – ricordarti come ti è arrivata la notizia, in quale momento, ecc. – magari può essere utilizzata in un altro articolo. Ma di base quello che possiamo fare è verificare che le notizie siano vere o meno. Perché l’interesse di qualcuno c’è sempre. E poi succedono delle questioni particolari: magari tu diventi amico di una fonte e anche la fonte ti considera suo amico. Insomma, si instaura un rapporto sincero. Magari ti dirà delle cose chiedendoti di non scriverle, e qui inizia il dramma del giornalista: rovinarti l’amicizia e la fonte dando la notizia o mantenere l’amicizia e non dare la notizia? Qui decide la sensibilità di ciascuno di noi.
VUOI DIVENTARE GIORNALISTA D’INCHIESTA?
SCOPRI IL PROGRAMMA DEL CORSO E REALIZZA LA TUA INCHIESTA CON NOI
Quando hai deciso di fare il giornalista?
Mio padre e mio nonno erano grandissimi lettori di giornali. Lavoravano entrambi in pubblicità. Mio nonno era un grande amico di Montanelli e faceva il pr internazionale. Quindi avevamo la casa sempre piena di giornali. Poi avevo una prozia che aveva lavorato a Radio Londra e che è stata una grande scrittrice storica. Insomma, noi i giornali, la carta stampata, i libri ce l’avevamo nel sangue. Io però non pensavo di fare il giornalista, ma durante il primo anno di università, Giurisprudenza, avevo una fidanzatina, mia compagna di corso. A un certo punto vado negli Stati Uniti un paio di mesi, una vacanza lunga, e le scrivo delle lettere. Quando torno lei mi dice “tu che mi scrivi delle lettere così belle – lettere d’amore – ma perché non fai il giornalista?”. Io risposi qualcosa tipo “boh”. Lei mi disse che vicino casa sua avevano aperto una scuola di giornalismo, era una delle prime in Italia. Io faccio l’esame di ammissione, che era una prova scritta, e arrivo primo su circa duecento persone. L’esame orale era una formalità. All’epoca era molto facile, non era come adesso. Metà della scuola, dopo il primo stage del primo anno, ha trovato posto in un giornale. I giornali erano in ascesa, avevano bisogno di giornalisti. I freelance erano pochi, dopo uno o due anni era sicuro che trovavano lavoro in un giornale. Dovevi essere proprio cretino per non riuscire a fare il giornalista. Adesso è molto diverso.
Qual è l’inchiesta a cui sei maggiormente legato?
Non so se si tratta dell’inchiesta a cui sono maggiormente legato, ma è una delle prime che ho fatto e l’ho fatta proprio mentre lavoravo a Il Giornale. Credo addirittura negli anni Ottanta. Succede che tramite un collega arriva la notizia che era stato trovato all’interno di un albergo un signore morto di overdose da eroina con il buco nel braccio ma senza la siringa. Quindi non poteva essersela procurata da solo. Da lì parte un lavoro fatto da me e dalla redazione e scopriamo che questo signore era iscritto a un club che si chiamava “Club della dolce morte”, un antesignano delle associazioni pro-fine vita, pro eutanasia. Allora c’era a Milano un’amministrazione socialista che affittava a questa associazione uno spazio dalle parti della Galleria a pochissimi soldi. Io a un certo punto prendo una delle due macchine che erano nella disposizione de Il Giornale e vado a parlare con il presidente di questa associazione, che viveva in una villa poco fuori Firenze. Questo presidente era un medico molto anziano. Entro in casa sua e lo trovo al telefono che dice a una tizia: “Signora, le avevo detto che trenta pastiglie non bastano”. Capisco che sta parlando con un’aspirante suicida. Riesco a farmela passare e faccio l’intervista all’aspirante suicida che non era riuscita nel suo intento. Questa è stata fortuna, che in un’inchiesta è elemento fondamentale. Essere al posto giusto nel momento giusto. A quel punto scrivo la storia, sia della donna aspirante suicida, sia del medico, che poi finiscono sotto processo, e io vengo sentito come testimone. Ecco, non è l’inchiesta più importante che ho fatto, però ci sono tutto gli elementi. Partito da una notizia l’ho sviluppata, poi si è aggiunta la fortuna e infine ho portato a casa il risultato.