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Nato a Toulon, Francia, nel 1975 inizia ad occuparsi di fotografia, lavorando nelle strade e nelle piazze della contestazione e nel 1977 si trasferisce a Parigi. Da qui iniziano i suoi viaggi come reporter-photographer, dapprima con agenzie francesi, in seguito per conto di agenzie americane e per magazines internazionali (Newsweek, Der Siegel, Time, The New York Times), per i quali “copre” in assignement situazioni di crisi e di conflitto in  America Latina, Africa, Balcani, Medio Oriente. Nel 1992 conquista il premio World Press Photo con un servizio su un’epidemia di colera in Perù e nel 1999 la menzione d’onore allo stesso concorso per un reportage sul Kosovo. Successivamente si rivolge sempre di più verso progetti personali di documentazione che gli permettono di affrontare una storia in modo più articolato e meno condizionato dalle esigenze e richieste dei settimanali. Nel 2011 si aggiudica per la terza volta il premio Wolrd Press Photo con una foto scattata alla commemorazione annuale della strage di Srebrenica.

All’interno del piĂš ampio progetto della Newsroom Academy, il workshop con Ivo Saglietti si pone l’obiettivo di far dialogare i partecipanti con il tre volte vincitore del World Press Photo al fine di individuare talenti e idee valide. Il corso è organizzato in tre giornate durante le quali verrano esplorati vari temi: la poetica di Saglietti, la struttura di una missione fotografica e gli elementi che fanno di una serie di foto un racconto. Inoltre, ci sarĂ  una lezione dedicata alla revisione dei portfolio dei partecipanti e il lavoro migliore verrĂ  pubblicato su InsideOver e su ilGiornale.it.

QUI TUTTE LE INFO SUL CORSO CON IVO SAGLIETTI, TRE VOLTE WORLD PRESS PHOTO

Qual è stato il primo progetto realizzato per InsideOver?

Il primo lavoro con InsideOver è stato un reportage. Lo abbiamo fatto in Belgio. Io ed un giornalista siamo andati in un piccolo villaggio vicino ad Anversa, sullo Schelda, un fiume che è anche un grande porto, vicino ad una centrale nucleare. In quei giorni stavano facendo spostare le persone del villaggio. Una delle ragioni di questo spostamento era che stavano costruendo un porto per containers, l’altra ragione invece, secondo noi, era che la centrale nucleare iniziava ad essere pericolosa. Da lì siamo poi scesi sempre in territorio belga sulle tracce della Prima guerra mondiale.

Come sono organizzati gli incontri e quali temi verranno affrontati?

Vedrò i portfolio dei ragazzi, mostrerò alcuni miei progetti e cercherò di individuare il talento (se ci sarà) e le buone fotografie. È un’occasione per conoscere questi ragazzi, per fare un’analisi profonda dei loro portfolio cercando di capire le persone, le loro idee e il loro talento. Sarà anche un’occasione per mostrare i miei lavori e spiegarli. Inoltre, nel corso dell’ultima lezione selezionerò il portfolio migliore e questo verrà pubblicato sia su InsideOver sia su ilGiornale.it.

Nel corso della tua carriera hai avuto modo di organizzare diversi workshop. Cosa speri di comunicare a chi parteciperĂ  al tuo corso?

Spero di riuscire a parlare di visione fotografica, etica e passione. La visione fotografica dipende sempre dal tipo di cultura fotografica che uno ha e non solo. Una visione fotografica si acquisisce anche leggendo libri o guardando film, e questo è fondamentale. L’etica invece riguarda soprattutto il modo di comportarsi di fronte alle persone. Bisogna sempre cercare di raccontare, nel bene e nel male, la dignità e l’umanità delle persone. Questo è fondamentale nel mio lavoro. E per riuscire a farlo bene la passione è essenziale.

Un’occasione imperdibile quella di presentare il proprio lavoro e avere l’opportunità, se selezionato, di vederlo pubblicato. Qual è secondo te il segreto per realizzare un buon portfolio?

Dietro ad una fotografia, deve esserci un pensiero. Un grande direttore di giornale italiano diceva che una foto può valere anche mille parole, però queste parole bisogna anche saperle pensare, altrimenti non si possono fare fotografie. Senza pensiero si stanno facendo altre cose, una raccolta di immagini forse, ma la fotografia ha bisogno di un pensiero forte. Il pensiero determina poi il progetto. Io non credo molto nelle foto singole. Vedo vari libri che sono un assemblaggio di singole foto di diverse situazioni, ma quello che a me interessa è poter raccontare col tempo e nel tempo la vita, il bene, il male, i drammi o la gioia che si determinano in un particolare momento, qualunque esso sia. Ho un caro amico che fa delle fotografie di matrimoni. Le sue fotografie mi portano dentro questi matrimoni, vanno al di là della festa. Il progetto è qualcosa che va fatto con lentezza, nel tempo. Si torna e ritorna negli stessi luoghi approfondendo, conoscendo le persone, creando una famiglia. Questo io intendo per progetto. In questo senso, un buon progetto ha anche bisogno di costanza e di fatica.

La tua carriera da fotografo inizia, come spesso scrivi, nelle strade e nelle piazze. Come questo inizio ha influenzato la tua poetica, il tuo sguardo nelle storie che racconti?

Non basta solo stare in strada, bisogna saper guardare e vedere, avere molta concentrazione, camminare lentamente, tutto questo non è che l’inizio per poi trovare un progetto che ti appassioni e per portarlo avanti testardamente nel tempo. Io non mi considero uno Street Photographer e, fra l’altro, è un genere di fotografia che non mi interessa.

Nel 2011, il tuo scatto fatto alla commemorazione del massacro di Srebrenica che si tiene ogni anno a Potočari, in Bosnia, ha vinto il World Press Photo. Ti va di raccontarci la storia di questa foto?

Quando si fa il lavoro del fotografo, ci si alza molto presto. Anche soltanto per una passeggiata, anche se non succede niente. Quella mattina mi alzai molto presto, camminai verso Potoćari, il villaggio in cui vengono sistemate le bare per la commemorazione. Arrivai lì, entrai nel capannone e vidi soltanto queste due figure. Non c’era nessun altro davanti a me, forse qualcuno era in fondo, ma non ne sono sicuro. Rimasi per un momento ad osservare queste due donne, che sembravano quasi due suore. Erano molto belle, con le bare illuminate dietro di loro. Alzai la macchina, feci un primo scatto e poi ne feci un secondo. Due scatti in tutto e poi me ne andai. Mi sembrava giusto farle rimanere sole. Purtroppo il nostro lavoro è anche questo, capita di essere un po’ invasivi. Però non quel giorno, non si accorsero neanche di me e questa cosa mi tranquillizzò un po’.





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